Guido Catalano: Poesie al megafono al Tempio Valdese

Guido Catalano: Poesie al Megafono al Tempio Valdese di Torino, il 10 e 11 dicembre

Il 10 e l’11 dicembre il Tempio Valdese di Torino ha ospitato il Reading di Natale di Guido Catalano, che ha declamato i versi delle sue “Poesie al megafono“, il libro sonoro uscito il 19 novembre per Rizzoli.
Come un antro della Sibilla Cumana, o come una grotta illuminata da una penombra mistica ed eccitante al tempo stesso, il Tempio Valdese ha offerto il suo corpo di marmi e chiaroscuri a Guido Catalano: l’acustica della chiesa ha sublimato ogni sbuffo di voce del poeta, ogni mutamento impercettibile del suo tono e ogni guizzo della sua erre moscia, che ha avvolto le sue liriche come un involucro scanzonato e compiaciuto.

Leggere una poesia di Guido Catalano, dalla carta stampata o sui display di uno smartphone, non restituisce le pause sincopate, gli umori, il ritmo dei respiri e il fiato che vibra, si innalza e si modula fino a creare delle vere e proprie spirali ipnotiche e capaci di catturare l’ascoltatore come una mosca intrappolata nell’ambra.
L’ascoltatore rimane ingabbiato nelle spire delle poesie, intrappolato nei sostantivi e imbalsamato negli aggettivi e nei finali a volte buffi, drammatici o liberatori.

Poesie al megafono ha una natura duplice, poiché non è solo un audiolibro, ma un oggetto tangibile, fatto di carta e inchiostro, è un oggetto a metà strada tra il regalo di Natale e il feticcio: feticcio perché cristallizza, per sempre, la voce del poeta, da ascoltare e riascoltare a proprio piacimento, che regala qualcosa di sé a chi ne fruisce. Gli regala il suo fiato, l’impasto della sua lingua e la sua voce, gli dona la chiave di lettura ideale per godere al meglio della poesia.
Perché la poesia, si sa, è di chi gli serve, ma anche di chi sa come leggerla e come ascoltarla, per far sì che sprigioni pienamente le sue fragranze e la sua forza, spesso dirompente.

Guido Catalano e il suo reading di Natale: un universo natalizio atipico

L’universo natalizio, che Catalano ha evocato con uno schiocco di dita al Tempio Valdese, rasenta i toni di un bestiario moderno, in cui si affastellano personaggi costruiti con drammaticità e anche con ironia.
Guido Catalano, vero e proprio guru dell’amore degli anni Duemila, ci invita con fare sornione nel suo antro, per lasciarci ammaliare e piantare in asso dalle figure che vorticano attorno al suo ideale albero di Natale.
Se dovessimo pensare all’universo da lui evocato, penseremmo a una sfilata di amori abortiti, sentimenti dichiarati candidamente e spudoratamente, ex fidanzate che come fantasmi del Natale passato continuano a tormentare i protagonisti e Barbapapà che si tramutano in Barbamerda: ognuna delle comparse di questa parata entra in scena velocemente, si aggrappa alla saliva dell’autore e sparisce non appena la parola si è consumata nel soffio di una candela.

Lo spettatore osserva, stupito e incuriosito come un bambino la mattina di Natale, la “luccicanza” dei personaggi di Catalano, che lampeggiano, volteggiano nella penombra come tanti spiritelli perversi e poi si dissolvono in una nebulosa gelida come l’aria plumbea di Torino in questi giorni.
E ne vuole ancora, vuole ancora acchiappare la luce, le perversioni e le ambiguità di questi personaggi che sono fatti di contraddizioni e candore infantile come se, toccandoli con mano, lo spettatore potesse regredire a quel momento della vita in cui bastava osservare un fiocco di neve per sentirsi leggeri e trasparenti come vetro.
Alcune poesie di Catalano hanno lo stesso ritmo di un amplesso, fanno sudare lo spettatore, lo costringono a contorcersi sulla sedia per seguirne le cadenze, per poi esplodere nell’orgasmo finale, liberatorio e madido di nuovi significati, o forse di incertezza. Il finale è l’approdo per eccellenza della poesia di Catalano, che sbatte sulla riva come risacca, trascinando lo spettatore nel suo mulinello senza chiedergli nulla.

La poesia non chiede e non aggiunge nulla, ma offre molto: offre il valore di quei momenti in cui si senti spogliati ed esposti al sole e al vento, vulnerabili e senza difese che tengano, e ci offre la possibilità di correre il rischio.
Correre il rischio di ridere delle nostre brutture e della nostra goffaggine, o di ficcare finalmente l’occhio in quel solco lì, quello che osavamo solo guardare da lontano per paura che ci accecasse, o che nascondevamo impunemente come polvere sotto il tappeto.
Perché guardarsi dentro non è impresa da tutti, in qualsiasi momento dell’anno e anche a Natale, ma forse un’erre moscia può fornirci quella lanternina che avevamo lasciato proprio lì, su quella mensola dimenticata di tante infanzie fa.

Fonte immagine: Ufficio Stampa Big Time

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A proposito di Monica Acito

Monica Acito nasce il 3 giugno del 1993 in provincia di Salerno e inizia a scrivere sin dalle elementari per sopravvivere ad un Cilento selvatico e contraddittorio. Si diploma al liceo classico “Parmenide” di Vallo della Lucania e inizia a pubblicare in varie antologie di racconti e a collaborare con giornali cartacei ed online. Si laurea in Lettere Moderne alla Federico II di Napoli e si iscrive alla magistrale in Filologia Moderna. Malata di letteratura in tutte le sue forme e ossessionata da Gabriel Garcia Marquez , ama vagabondare in giro per il mondo alla ricerca di quel racconto che non è ancora stato scritto.

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