«Meglio ferire l’orgoglio di un uomo che finire ammazzate» dice Elena, sorella maggiore di Giulia Cecchettin, la ragazza di 22 anni uccisa dall’ex fidanzato Filippo Turetta, suo coetaneo.
Le parole di Elena sono ferme, dure e piene di rabbia, non c’è più spazio per la tristezza, il numero di donne morte in Italia nel 2023 ad oggi ammonta a 106, di cui 84 uccise in ambito affettivo e familiare, e un numero così non può più suscitare solo lacrime e dolore, un numero del genere indica il bisogno immediato di una rivoluzione sociale.
Lo sapevamo tutte, questo l’hashtag che circolava sul web a seguito della notizia del femminicidio della giovane Giulia Tramontano, al settimo mese di gravidanza, il cui corpo senza vita sarà ritrovato a Senago, nel milanese, nella notte tra il 31 maggio e il primo giugno scorso. Ad ammettere di aver commesso l’omicidio sarà il compagno Alessandro Impagnatiello che ne aveva denunciato la scomparsa pochi giorni prima.
Quel lo sappiamo già tutte continuava a riecheggiare prepotente nelle menti delle donne che stavano seguendo la vicenda durante i giorni precedenti al rinvenimento del corpo di Giulia Cecchettin, lasciato in un dirupo nei pressi del Lago di Barcis, abbandonato senza alcun rimorso e senza alcuna pietà, come si abbandona una busta della spazzatura sul ciglio della strada, e come se la vita di Giulia meritasse una fine del genere, sentenziata dall’ennesimo uomo che voleva una donna priva di libertà, priva di scegliere, priva di raggiungere i suoi obiettivi e le cui uniche preoccupazioni dovessero sempre e solo volgere alla sua vita sentimentale, al suo dovere nei confronti di Filippo Turetta in quanto sua fidanzata, in quanto donna completamente devota al suo uomo.
Tra i tantissimi obiettivi che Giulia Cecchettin avrebbe potuto e dovuto raggiungere, imminente era il conseguimento della Laurea in Ingegneria biomedica presso l’Università di Padova, dove la ragazza avrebbe dovuto discutere la tesi il giorno 16 novembre, incoronando uno dei tantissimi traguardi che le spettavano. Ma Filippo Turetta ha voluto fermare tutto questo, ha voluto abbattere Giulia in modo totalizzante, rubandole la vita e rubandole i sogni, perché essere una donna intelligente, affermata e che si impegna in tutto ciò che fa spaventa l’uomo e lo fa sentire minuscolo, e nella sua piccolezza l’unico modo per riaffermare il proprio potere è eliminando la minaccia principale alla sua virilità: la donna.
Ma attenzione, Filippo Turetta non è l’orco, il mostro, di questa vicenda, come Giulia non era la principessa da salvare. Questa non è una favola finita male, questa è la realtà della società in cui viviamo e di cui Elena Cecchettin, nonostante lo strazio di aver perso sua sorella, ha cercato di sottolinearne il marcio presente in radice, facendolo nella maniera più razionale possibile e individuando la responsabilità dei femminicidi non nell’individuo che lo compie, ma nella struttura patriarcale e limitante – nei confronti delle donne- dell’assetto sociale e delle istituzioni italiane.
«Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere ed è un omicidio di Stato», afferma la ragazza in una delle interviste rilasciate ai giornalisti, e queste poche parole sono bastate a far scatenare un dibattito del tutto innecessario sul fatto non siano tutti gli uomini a macchiarsi di questo crimine, e su come il patriarcato renda anche loro vittime di standard e comportamenti da seguire. Ciò che però la lotta femminista ha cercato di perpetrare, soprattutto a fronte della crescita sproporzionata dei femminicidi nell’ultimo anno, è che essa vuole e deve essere una lotta che parta in primis dalle donne e per le donne, troppe volte gli uomini hanno ribadito la loro opinione e posizione riguardo le questioni di genere, spostando l’attenzione – ancora una volta – dall’opinione femminile e dettando legge sul perché i femminicidi si verifichino così frequentemente, spoiler: la colpa è sempre e solo della donna. La donna che li fa ingelosire, la donna che non ricopre il suo ruolo di madre, fidanzata, moglie, sorella, la donna che osa esprimere la propria opinione riappropriandosi di una libertà che in realtà non le appartiene in quanto possessione dell’uomo.
Il femminicidio è il modo in cui si presenta un problema socioculturale più profondo del nostro paese e l’atto di strappare la vita ad una donna è il culmine di tale problema, che viene alimentato sempre di più dalla cultura dello stupro. Fare catcalling è violenza, insultare è violenza, invadere la privacy della compagna spiandole il cellulare è violenza, vietarle di uscire o di coltivare i propri sogni è violenza, deumanizzarla tramite l’oggettivazione del suo corpo – a partire dall’industria del sesso e del porno – è violenza, volerla possedere sessualmente in qualsiasi momento a prescindere dal suo consenso è violenza.
Negare l’evidenza di tutto ciò e restare in silenzio, o addirittura scagliarsi contro le pazze femministe misandriche, come vengono definite sui social, significa essere parte del problema e alimentarlo, ma d’altronde chi persona socialmente privilegiata avrebbe il coraggio di ammettere il privilegio e denunciarlo? Per questo le donne più che mai stanno facendo sentire le loro voci sempre più forti. E per questo, davanti a una Elena Cecchettin che si mostra lucida e determinata, che non lascia trapelare debolezza alcuna dinanzi alle telecamere e alle domande scomode che le vengono poste, aumenta sempre di più l’indignazione di chi si aspettava il silenzio – in segno di rispetto per la vittima- davanti all’ennesimo femminicidio, e si tratta proprio di chi in questa società, in realtà, vive più che bene -la popolazione maschile- che riguardo questo tragico evento si esprime così sui social: «Elena Cecchettin invece di piangere la sorella, fomenta odio» e ancora «Ognuno affronta il dolore a proprio modo, ma non è stato ancora fatto il funerale e già si va in tv a dire queste cose? Questo avrebbe voluto davvero Giulia?» e, per concludere, il consigliere regionale del Veneto, Stefano Valdegamberi, esordisce accusando Elena Cecchettin di avere qualche collegamento nell’uccisione della sorella poiché membro di una setta satanica, cosa davvero irrisoria e surreale: «Ho ascoltato le dichiarazioni della sorella di Giulia [..] mi sembra un messaggio ideologico costruito ad hoc, pronto per la recita. [..] E poi quella felpa con simboli satanici aiuta a capire molto… spero che le indagini facciano chiarezza».
Questi commenti inopportuni e insensati, insieme al piagnisteo del non tutti gli uomini, non fanno altro che confermare tutto ciò contro cui le femministe sono in lotta da secoli. Quindi no, proporre un opuscolo illustrativo che insegni a riconoscere i segnali pericolosi nell’uomo, invece di educare questi ultimi e renderli consapevoli del disagio che vive e prova ogni giorno una donna, non è assolutamente una soluzione. Continuare a proporre momenti di silenzio in ricordo delle ragazze uccise in ambito affettivo, come Giulia Cecchettin, e continuare a diminuire i fondi per la prevenzione alla violenza di genere, non sono soluzioni. Deresponsabilizzare uno stato nato e cresciuto all’ombra del patriarcato non è una soluzione.
Educare sé stessi e educare chi è vicino, riprendere comportamenti misogini e offensivi, che siano da parte di amici, parenti, colleghi, da qui inizia il vero cambiamento. Non saranno i soliti discorsi in televisione, tenuti in maggioranza da uomini al di fuori del disagio e della discriminazione che ogni due giorni uccidono una donna, e due storie instagram studiate a pennello per la giornata contro la violenza delle donne, del 25 Novembre, a cambiare le cose.
Non c’è bisogno di silenzi assordanti, impregnati di vergogna e tristezza ma di tanto rumore, un rumore così forte che nessuno potrà ignorare perché, come recita la poesia dell’attivista peruviana Cristina Torres-Cáceres, se domani sono io mamma, se domani non torno, distruggi tutto, e per Giulia Cecchettin distruggeremo tutto.
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