“Reddito di libertà per le donne vittime di violenza”. La notizia rimbalza un po’ ovunque come buona notizia. E lo è, evidentemente, senza dubbio. Ma per circa una donna su cento.
Andiamo con ordine: di cosa si tratta? Il reddito di libertà è una misura economica che prevede l’erogazione di un sussidio (con tetto massimo di 400 euro mensili e per un massimo di 12 mesi) da parte dell’Inps a tutte le donne vittime di violenza residenti in Italia e seguite da un centro antiviolenza riconosciuto dalla Regione o dai servizi sociali. Potranno usufruirne anche le donne straniere in possesso di permesso di soggiorno, rifugiate o con lo status di protezione umanitaria. Il sostegno è stato previsto dalla legge 77/2020 (approvata a luglio dell’anno scorso), in risposta all’incremento delle violenze domestiche durante i mesi del lockdown e con l’obiettivo di far riacquisire alle beneficiarie autonomia abitativa, economica e personale, contribuendo anche alle spese derivanti dalla frequenza scolastica o a percorsi formativi dei figli minorenni. La domanda va presentata all’Inps tramite il Comune di residenza, compilando un modello definito dall’istituto di previdenza e allegato alla circolare 166/2021. Infine, il reddito di libertà dovrebbe essere (in futuro, ma con ancora molte incertezze) abbinato ad altre misure volte a favorire l’autonomia lavorativa delle donne (tirocini retribuiti, microcredito, accessi prioritari alle graduatorie per il patrimonio immobiliare pubblico).
Sbrigata la questione “burocratica”, proviamo a centrare il tema. Premesso che 400 euro sono una cifra irrisoria per una donna che, in teoria, dovrebbe prendere una casa in affitto ed, eventualmente, continuare a garantire un discreto tenore di vita ai propri figli, e premesso che 12 mesi sono un tempo troppo ridotto per permettere a una donna di riacquisire la propria autonomia e lasciarsi definitivamente alle spalle una violenza; il problema principale è che a beneficiarne saranno, secondo i calcoli della rete D.iRe, al massimo 625 donne in tutta Italia, a fronte di circa 50.000 donne che ogni anno vengono accolte nei centri antiviolenza calcolati dall’ISTAT nel 2018.
In secondo luogo, i fondi per il reddito di libertà saranno gestiti dalle Regioni, che li trasmetteranno ai comuni, come avviene – ad esempio – per i centri antiviolenza. Questo sistema, però, causa notevoli ritardi nello spostamento delle risorse, come denunciato da anni dalle associazioni del settore. Si aggiunge il fatto che il piano antiviolenza (scaduto nel 2020) non è stato rinnovato per quasi un anno, causando il ridimensionamento o la sospensione delle attività per molti centri antiviolenza.
In definitiva, occorrerebbe che le istituzioni e i Governi facessero un investimento reale nella direzione di risolvere il problema, concentrandosi sì sulla prevenzione (sulla quale, però, si discute molto e si investe poco), ma provando soprattutto a “gestire l’emergenza” non solo, appunto, in una logica puramente emergenziale (mettere in sicurezza la donna, garantire sussidi nel corso del tempo) ma complessiva e strutturale.
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