La grande chiazza di immondizia del Pacifico simboleggia la scelleratezza della razza umana, ma anche la sua capacità di crescere e di porre rimedio ai danni.
È il 1997 quando Charles Moore, dopo aver partecipato alla Transpacific Race, una gara di vela tra la California e le Hawaii, decide di tornare a casa impostando una rotta insolita. Vuole passare infatti attraverso il vortice subtropicale del nord pacifico, una corrente oceanica situata tra l’equatore e il 50° grado di latitudine nord. Procedendo attraverso la corrente, che si districa in una delle zone più remote dell’Oceano Pacifico, Moore non crede ai suoi occhi. Sporgendosi da prua, non vede altro che plastica, un mare di plastica che si estende a perdita d’occhio. Nella settimana impiegata ad attraversare la corrente, Moore non riesce a trovare un quadrato di oceano dove non sia possibile trovare una bottiglia di plastica. Il miscuglio cromatico della plastica punteggia la distesa blu come una varicella. Sta attraversando la “Great Pacific Garbage Patch”, la grande chiazza di immondizia del pacifico, anche se il mondo ancora non gli ha dato un nome.
La zuppa di plastica
La grande chiazza di immondizia è un’ampia area situata tra il 135º e il 155º meridiano Ovest e tra il 35º e il 42º parallelo Nord nell’Oceano Pacifico, composta perlopiù da plastica. Il fenomeno fu descritto per la prima volta nel 1988, quando uno studio americano rivelò livelli significativi di plastica in alcune zone del Pacifico, dove le correnti permettevano ai rifiuti galleggianti di confluire in un unico punto, andando a formare la grande chiazza di immondizia e suggerendo la presenza di situazioni simili anche in altre aree dell’oceano. Fu solo dopo la traversata di Charles Moore che i media di tutto il mondo iniziarono a parlarne, e il termine Great Pacific Garbage Patch fu coniato.
Sebbene nell’immaginario collettivo si tenda a immaginarla come un’isola di plastica calpestabile, la realtà è molto diversa. Nel cuore del vortice, è stata accertata in media la presenza di cento chili di plastica per chilometro quadro, che tendono a diminuire avvicinandosi ai bordi. La chiazza contiene perlopiù microplastiche, frammenti compresi tra 0.05 e 0.5 centimetri che compongono una “zuppa di plastiche”, molte delle quali non visibili ad occhio nudo. I rifiuti visibili rappresentano soltanto il sei percento del problema e sono costituiti principalmente da ammassi informi di funi e reti attorcigliate tra di loro. Reti fantasma le chiamano, ghost nets, e rappresentano una delle minacce, quanto meno più visibili, alla fauna marina che spesso finisce impigliata.
Se la composizione ci è chiara, meno chiare sono le dimensioni. A causa delle variazioni di corrente e del vento, stabilire un confine preciso è problematico. Studi diversi hanno ipotizzato grandezze diverse, partendo dalla dimensione del Texas, fino ad arrivare alle dimensioni della Russia. L’unica certezza che sembrano avere gli scienziati, è che ad ogni misurazione i numeri crescono.
Purtroppo, la grande chiazza di immondizia del Pacifico non è l’unica. La stessa chiazza è in realtà un sistema di due chiazze, una ad ovest ed una ad est, divise da un lembo d’acqua chiamato “zona di convergenza”, anch’esso magnete naturale per la plastica. Ma possiamo trovare aree simili nel Pacifico del sud, nell’Oceano Indiano, nell’Atlantico meridionale e in quello settentrionale. Ad alimentare queste discariche in pieno oceano è il dieci per cento della produzione globale di plastica che ogni anno finisce in mare.
Per ora a pagarne le conseguenze è la fauna che popola gli oceani. Il rapporto tra la quantità di plastica e la presenza di biomassa marina al centro della chiazza è disarmante. Per ogni forma di vita marina più grande del mezzo centimetro troviamo 180 pezzi di plastica della stessa dimensione. Questo significa che per gli organismi che abitano la chiazza, la plastica è con ogni probabilità un alimento principale della loro dieta. I micro-frammenti colorati, vengono scambiati per plancton dai pesci, che ingerendoli, ingeriscono anche sostanze PBT, ovvero persistenti, bioaccumulabili e tossiche, che permangono nell’organismo avvelenandolo dall’interno. Le tartarughe marine catturate nella zona hanno dimostrato di avere fino al 74 percento della loro dieta composto da plastica.
Se questi numeri spaventano, il futuro non è roseo. I prossimi siamo noi. La plastica risale la catena alimentare ed entra nei nostri corpi attraverso il pesce che mangiamo. Con essa purtroppo, anche le sostanze BTP.
La bonifica dell’oceano
Nonostante la situazione sia critica, un po’ di speranza c’è. The Ocean Cleanup è un’organizzazione non governativa olandese che ha come unico scopo la “bonifica” degli oceani dalla plastica. A capo del progetto c’è Boyan Slat, ragazzo prodigio che nel 2013 ha fondato l’organizzazione quando aveva appena diciott’anni.
L’idea che sta alla base del progetto è geniale per la sua semplicità.
Slat ha ideato un sistema tubolare galleggiante lungo un paio di chilometri, da posizionare all’interno della chiazza. Spinto dal vento e dalla corrente, il sistema di galleggianti tubolari si dispone ad U e muovendosi più velocemente delle plastiche (che a differenza del tubo sono mosse solo dalla corrente) le “abbraccia” raccogliendole come in una rete. Le stesse forze che hanno generato l’accumulo di plastica, contribuiscono alla sua rimozione. Quando la “rete” è piena, una nave carica la plastica a bordo e parte verso la terraferma con l’obbiettivo di riciclarla.
Per ora il sistema è ancora in fase di sperimentazione. A dicembre del 2018 una rottura del galleggiante ha causato l’interruzione del progetto, che è stato riavviato solo un mese fa. Se i risultati dovessero essere incoraggianti, The Ocean Cleanup posizionerà sessanta sistemi galleggianti e in cinque anni avrà ridotto del 50% la grande chiazza del Pacifico.
Il grande dramma ambientale della plastica negli oceani impartisce una lezione importante. L’equilibro naturale del mondo non poggia le sue basi sulla staticità degli elementi, ma su un perpetuo mutamento. Il nuovo scaccia il vecchio e gli elementi si scontrano e ne producono di nuovi. Noi uomini non siamo esenti da questa regola, seppure spesso tendiamo a dimenticarcene. Il consumismo sfrenato e lo spreco connesso sono fenomeni relativamente giovani nella storia dell’uomo, e così come sono nati possono morire.
Un cambiamento di rotta è quindi necessario per ripristinare l’equilibrio prima di pagare un prezzo troppo alto. Se non lo faremo noi, sarà la natura a decidere i modi e potrebbe non piacerci. The Ocean Cleanup incarna perfettamente il moto continuo degli equilibri sulla terra dove l’essere umano può cambiare ed esistere in un sistema ridisegnato dove lo spreco non regna. Perché come le correnti e le forze marine che hanno “collezionato” la plastica creando tappeti di rifiuti, sono le stesse che intervengono per spingerle via, così l’uomo che prima ha inquinato, ora si può reinventare.
Fonte Immagine: https://pixabay.com/it/photos/immondizia-ambiente-spiaggia-2369821/