La lingua che utilizziamo può davvero influenzare la nostra percezione della realtà? Linguisti, antropologi e filosofi si sono posti spesso questa domanda e la risposta non è per nulla scontata.
Il modo in cui percepiamo e concettualizziamo la realtà può essere influenzato dalle strutture linguistiche che adoperiamo? La lingua ha, davvero, il potere di cambiare la nostra visione del mondo? Rispondere a queste domande non è affatto semplice e, in effetti, anche linguisti ed antropologi sembrano avere delle posizioni molto differenti fra di loro.
Uno dei primi a porsi tale interrogativo fu Ludwing Wittgenstein. All’interno del suo Tractatus Logico Philosophicus, il filosofo viennese afferma che le strutture del linguaggio rispecchiano la struttura del mondo: «Le proposizioni della logica descrivono l’armatura del mondo, o piuttosto, la rappresentano». Esse vanno a descrivere gli stati di cose e rappresentano la realtà, in quanto sono delle immagini della stessa. Non a caso, scrive: «La proposizione è un’immagine della realtà: io conosco la situazione da essa rappresentata se comprendo la proposizione. E la proposizione la comprendo senza che me ne si dia il senso».
Se conosciamo i significati dei termini che compongono una proposizione, non abbiamo bisogno che questa ci venga spiegata: la comprendiamo immediatamente, proprio come, guardando una figura, ne intuiamo il significato senza che questa debba esserci spiegata. Ciò può essere anche dedotto dal fatto che, nel tentativo di voler chiarire il senso di una preposizione, dovremmo farlo necessariamente attraverso un’altra proposizione, ritrovandoci così in un vicolo cieco.
Secondo Wittgenstein, una proposizione può rappresentare l’intera realtà, ma non la relazione tra il linguaggio stesso e il mondo, poiché questa si mostra da sé ed è la forma logica del mondo: «Ciò che nel linguaggio esprime sé, noi non possiamo esprimere tramite il linguaggio. La proposizione mostra la forma logica della realtà. L’esibisce». Non è dato pensare al mondo indipendentemente dal linguaggio, non c’è realtà senza la sua rappresentazione, che non è che lo stesso linguaggio. Pertanto, scrive: «I limiti del linguaggio sono i limiti del mio mondo».
Se la lingua influenzi o meno la propria visione del mondo se lo chiesero, a partire dagli anni Trenta del Novecento, anche due importanti studiosi americani: Edward Sapir, noto linguista strutturalista, e Benjamin Lee Whorf, che non era un linguista di professione, bensì un ingegnere chimico impiegato in una compagnia di assicurazioni che aveva seguito le lezioni di Sapir presso l’Università di Yale.
Secondo questi, «gli esseri umani dipendono in maniera importante dalla singola lingua che è divenuta il mezzo di espressione della loro società. […] Noi vediamo, udiamo e in generale proviamo le esperienze che proviamo proprio perché le abitudini linguistiche della nostra comunità ci predispongono a scegliere certe interpretazioni». A sostegno di queste idee, Whorf tentò di confrontare la differente organizzazione grammaticale delle lingue amerindiane rispetto a quelle europee, che unificò sotto la sigla SAE (Standard Average European, ossia “europeo medio standard”). Studiando, in particolar modo, l’hopi – utilizzata nel Nord-Est dell’Amazzonia – Whorf arrivò a considerare questa come una lingua “senza tempo” o, più precisamente, che ha in sé soltanto il concetto di tempo psicologico, molto simile a ciò che il filosofo Henri Bergson aveva definito, alcuni anni prima, “durata”. Gli indiani Hopi – secondo l’ipotesi di Sapir e Whorf – non conoscerebbero il tempo matematico, T, usato dagli occidentali ed il motivo sarebbe da attribuire al fatto che tale idea non è data a tutti gli uomini nella stessa forma, ma dipende dalla natura della lingua attraverso il cui uso si è sviluppata.
Il rapporto fra la lingua parlata e la realtà circostante non ha affascinato soltanto la linguistica. Nell’ambito della letteratura, per esempio, interessante è la neolingua (nell’originale Newspeak, cioè “nuovo parlare”) immaginata da George Orwell all’interno del suo 1984. Lo scrittore britannico teorizzò un sistema linguistico creato in maniera artificiale dal partito unico Socing, che – sostituendosi alla vecchia lingua – avrebbe cancellato la vecchia visione del mondo ed impedito di esprimere pensieri eretici, contrari ai princìpi del partito, attraverso la soppressione del lessico stesso. L’idea di Orwell è, dunque, che il linguaggio e il pensiero siano fortemente interconnessi: attraverso una manipolazione diretta dei modelli cognitivi dei parlanti, il Socing sperava di piegare il loro pensiero, uniformandolo e facendo sì che l’azione del parlare fosse simile allo starnazzare delle oche (in neolingua “ocoparlare”), cioè un semplice movimento delle corde vocali, meccanico e senza l’implicazione del cervello.
Se, da un lato, l’ipotesi della relatività linguistica entusiasmò diversi linguisti ed antropologi, altrettanti furono i detrattori. Tra questi ultimi, il più importante fu di certo Noam Chomsky che, dovendo rispondere all’argomento della povertà dello stimolo (ossia: come è possibile che un bambino possa imparare una lingua, comporre e produrre frasi in così poco tempo?) arrivò alla conclusione che il parlante è, in realtà, dotato di un meccanismo innato che guida alla acquisizione del linguaggio. Essendo innato, deve essere comune a tutti gli uomini e quindi universale. Questi concetti – noti con i termini di innatismo e universalità della lingua – fecero crollare definitivamente la credibilità delle teorie di Sapir-Whorf.
Di recente, tuttavia, la comunità scientifica ha deciso di dedicarsi in maniera più approfondita al rapporto lingua-realtà e i risultati ottenuti sarebbero sorprendenti. Uno studio pubblicato – ormai qualche anno fa – dalla rivista Psychological Science sembra dimostrare che esistono delle differenze consistenti nel modo in cui due parlanti di lingue differenti interpretano linguisticamente una stessa vicenda.
L’esperimento è stato condotto da Panos Athanasopoulos, linguista della Lancaster University, prima su dei madrelingua inglesi e, subito dopo, su dei madrelingua tedeschi: gli è stato mostrato un video di una persona che cammina in direzione di una macchina, chiedendo successivamente di descrivere la scena. Come spiega lo studioso, la risposta più comune che si riceve da un madrelingua inglese è che il filmato mostra “una persona che cammina”. La stessa scena, mostrata a un tedesco, acquisisce una sfumatura importantissima: infatti, in media, ci si sente rispondere che nel video si vede “una persona che cammina verso la sua macchina”.
Questo perché mentre i madrelingua tedeschi hanno una visione più olistica del mondo, cioè tendono ad osservare i fenomeni nel loro insieme, gli inglesi preferiscono concentrare l’attenzione soltanto sull’azione. «Le basi linguistiche di questa tendenza – spiega Athanasopoulos in un articolo pubblicato su The Conversation – sembrano essere radicate dai modi in cui gli strumenti disponibili in grammatiche diverse permettono di collocare un’azione nel tempo. L’inglese richiede ai suoi parlanti di esprimere grammaticalmente gli eventi che sono in corso, utilizzando obbligatoriamente il morfema -ing. In tedesco, invece, non esiste questa caratteristica.»
Ad avvalorare questa tesi ci sarebbe anche un’altra indagine. Lera Boroditsky – professoressa associata di Psicologia Cognitiva all’Università di Stamford – ha avuto modo di studiare la lingua della comunità aborigena dei Pormpuraaw, nota come Kuuk Thaayorre, scoprendo che i parlanti riescono ad orientarsi meglio nello spazio, a sapere con precisione dove si trovano anche in luoghi a loro sconosciuti. La differenza sta nel linguaggio: rispetto agli inglesi, ai tedeschi o agli italiani, che per definire le direzioni utilizzano i concetti di “destra”, “sinistra”, “avanti”, “indietro”, questa comunità adopera invece i punti cardinali. Pronunceranno, perciò, frasi del tipo: “Sposta la tazza un po’ più a nord-est”.
«Tempo fa – racconta la studiosa in un articolo pubblicato su Le Scienze – mi trovavo a Pormpuraaw […]. Accanto a me c’era una bambina di cinque anni. A un certo punto le ho chiesto di indicare il nord. Lei ha puntato il dito con precisione, senza esitare, e la bussola ha confermato: la bambina aveva ragione. Tempo dopo, nell’aula magna della Stanford University ho fatto la stessa domanda a un pubblico di eminenti studiosi […] Molti si sono rifiutati perché non conoscevano la risposta. […]. Ho ripetuto lo stesso esercizio ad Harvard, Princeton, Mosca, Londra e Pechino, sempre con gli stessi risultati.»
Le lingue si distinguono anche per il modo in cui guidano i nostri ragionamenti rispetto agli eventi. Boroditsky nota come, nel caso di un evento accidentale, quale la rottura di un vaso, un madrelingua inglese tenderà comunque a sottolineare che l’incidente è opera di una persona, cioè sarà più incline a sottolinearne il responsabile; un giapponese o uno spagnolo, invece, dirà più semplicemente che “Il vaso si è rotto”.
Questo perché in inglese il linguaggio privo di soggetti che agiscono suona evasivo, è visto come prerogativa dei bambini o degli uomini politici che tentano di alleggerirsi da una colpa. Chi parla in inglese tende sempre a specificare chi fa cosa e sceglie costrutti transitivi come «John ha rotto il vaso», anche in caso di evento fortuito.
«La bellezza della diversità linguistica è che ci rivela quanto sia ingegnosa e flessibile la mente umana. La mente umana non ha inventato un solo universo cognitivo, ma 7.000. Ci sono 7.000 lingue parlate in tutto il mondo. E possiamo crearne molte altre. La lingua – conclude Boroditsky – è una cosa viva, che possiamo plasmare e cambiare per adattarla alle nostre esigenze.»
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