Da secoli, milioni di donne nel mondo si battono strenuamente per i diritti propri e soprattutto per quelli delle altre donne che purtroppo non hanno alcuna voce per farli valere. E, purtroppo, nonostante l’impegno costante, lo sforzo tenace e i passi da gigante fatti in avanti, la strada per la parità è ancora lunga e tortuosa. Ed è lunga chiaramente per i salari che sono differenziati per posizioni lavorative che sono uguali tra uomini e donne, per la libertà sacrosanta di circolare in strada con tranquillità indipendentemente dall’abbigliamento che si indossa, ma è lunga in modo particolare per quelle donne sfortunate cui vengono purtroppo negati i diritti fondamentali in paesi troppo remoti rispetto al nostro per potercene accorgere immediatamente. Negli ultimi tempi, nelle comunità rurali che sono le più isolate dell’India, in particolare a Beed, una città indiana che si trova nello stato del Maharashtra, un numero che è assolutamente allarmante di giovani donne sceglie sempre più spesso di sottoporsi a un intervento di isterectomia praticato da personale non sempre qualificato. Questa pratica chirurgica invasiva prevede purtroppo la totale asportazione dell’utero, con conseguenze pesanti per la salute delle donne e il suo scopo è tutelare con premura le donne da una serie di condizioni cliniche che si rivelano potenzialmente letali. Spesso tale intervento cruento si pratica in seguito purtroppo a gravidanze che sono difficili e a parti cesarei complicati e l’età che è maggiormente consigliabile si colloca sempre oltre i 40 anni di età.
Isterectomia in India: una pratica allarmante
I motivi tragici che spingono queste giovanissime donne a sottoporsi a un intervento chirurgico che è tanto invasivo, però, non sono affatto legati alla loro sfera personale e intima, bensì in modo esclusivo a quella che è la sfera lavorativa che le opprime. Per comprendere quindi bene il contesto complesso, però, sarà necessario cercare di contestualizzarlo il più possibile.
Il contesto: siccità, migrazione e sfruttamento
Negli ultimi anni che sono stati segnati da difficoltà di ogni genere, a causa di una siccità prolungata che è stata particolarmente forte, il fallimento totale dei raccolti ha causato purtroppo una serie impressionante di problemi collaterali, come ad esempio l’accumulo di debito tra gli agricoltori, un aumento repentino dei costi che sono legati all’agricoltura, un aumento dei costi che sono legati all’agricoltura parallelo a un calo considerevole delle vendite dei vari prodotti agricoli e, non ultimo, la mancanza assoluta di opportunità concrete di lavoro che siano alternative. Per questo specifico motivo, si è assistito impotenti a una migrazione di massa che ha riguardato alcune città che vengono definite con il termine inquietante “della cintura dello zucchero”. Si parla qui di diverse città che si trovano nel Maharashtra occidentale e nel Karnataka, che è una regione a sud del paese, in cui centinaia di migliaia di persone si trasferiscono in massa nel preciso periodo che va da ottobre fino al mese di maggio per cercare lavoro nei famigerati campi di canna da zucchero.
Il lavoro che li attende è purtroppo arduo e fisicamente molto faticoso. Agli operai e alle operaie, infatti, tocca con fatica legare, caricare, scaricare e trasportare la canna da zucchero fresca alle fabbriche che la lavorano senza sosta. Di solito gli operai lavorano in coppia, che spesso è composta da marito e moglie, che vengono sempre supervisionati da figure che sono definite come i mukadams. Queste figure che sono controverse si occupano con zelo di fare da ponte fondamentale tra il lavoro che si svolge in fabbrica e quello che si svolge invece all’interno dei campi nei vari processi legati al taglio della canna stessa.
Isterectomia e lavoro: un circolo vizioso per le donne indiane
Ma cosa c’entra di preciso tutto questo scenario con le giovani donne che sono costrette in modo drammatico a farsi asportare del tutto l’utero? Bisogna considerare infatti che nei campi di canna da zucchero una giornata di lavoro normale dura all’incirca 12 o 13 ore senza sosta. Per un’intera stagione che è molto dura ogni operaio viene pagato con una cifra che oscilla tra le 50.000 e le 60.000 rupie, che in euro corrispondono all’incirca a 560€/670€: una cifra irrisoria. Il problema purtroppo più grave, però, è che per ogni singolo giorno di lavoro che viene mancato, gli operai sono puntualmente costretti a pagare una multa che è salata e che ammonta a 500 rupie, ovvero circa 5€. Inoltre, dal momento che si tratta di una “migrazione” che è purtroppo solo temporanea, i braccianti si sistemano in delle piccole e fatiscenti capanne che si trovano nei pressi dei campi sterminati. Queste strutture che sono precarie sono purtroppo sprovviste di qualunque tipo di servizio basilare: mancano del tutto i servizi igienici, manca l’acqua che sia potabile e mancano in modo particolare le strutture igienico-sanitarie che siano adeguate. Queste pessime condizioni purtroppo nuocciono in modo grave alla loro salute, che è già precaria a causa della povertà. Nuocciono ovviamente in modo particolare alla salute di tutte le donne che si trovano a riscontrare in continuazione infezioni e anche problemi di varia natura all’utero.
Donne senza voce: la mancanza di autonomia
Le donne che vivono in queste zone tristemente famose dell’India non vengono costrette esplicitamente all’asportazione brutale dell’utero, ma allo stesso tempo non hanno neanche alcun diritto di parola in proposito. Quello che purtroppo può sembrare un paradosso incomprensibile è la difficile condizione esistenziale che sono costrette a vivere decine di migliaia di ragazze. I tristemente famosi mukadams, infatti, non costringono esplicitamente le donne a sottoporsi all’intervento di isterectomia (anche se moltissimi di loro scelgono di non “assumere” le donne che hanno ancora l’utero), ma le multe che sono salate le spaventano talmente tanto da far sì che non abbiano altra scelta possibile. O meglio, un’altra possibile scelta sarebbe quella di evitare in tutti i modi di emigrare, ma purtroppo si tratta di una decisione che viene presa sempre e solo dal capofamiglia, che di solito è rappresentato dai mariti, ma anche spesso dai padri o dai suoceri che sono autoritari. Nonostante la grande precarietà del lavoro che le attende e il peso schiacciante delle condizioni di vita che sono oltremodo vulnerabili, queste giovani donne non hanno di fatto alcuna autonomia reale nel prendere decisioni che sono vitali e che riguardano in prima persona la loro stessa esistenza.
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