È il 12 dicembre 1969 quando il centro di Milano rimane vittima di uno degli attentati più violenti del Bel paese: cinquantaquattro anni fa avveniva la strage di Piazza Fontana, la «la madre di tutte le stragi», l’atto terroristico che fa da capostipite a tanti altri, aprendo così gli anni di piombo. La bomba che esplose nel cuore della Banca dell’Agricoltura causò 17 morti e 88 feriti, i quali non hanno mai ottenuto giustizia, poiché i processi fatti negli anni non sono riusciti a condannare i colpevoli definitivi.
Quest’attentato, però, non fu il più atroce del periodo: ricordiamo, ad esempio, la strage avvenuta sul treno Italicus il 4 agosto 1974 che causò 12 morti oppure la strage di Bologna del 2 agosto 1980, dopo la quale fu rinvenuto il maggior numero di vittime, ovvero 85. Questi sono solo alcuni degli attentati che hanno plasmato gli anni di piombo, una sorta di era del terrore italiana che ha preso il via proprio a Piazza Fontana nel 1969 e che si è conclusa con Bologna nel 1980. La strage del 12 dicembre ha fatto talmente tanto scalpore che il settimanale inglese The Observer ha coniato il termine strategia della tensione proprio dopo il suo avvenimento: quest’espressione indica una teoria o strategia politica che prevedeva la destabilizzazione e il disfacimento degli equilibri precostituiti tramite una minuziosa organizzazione di diversi atti terroristici. Gli anni Settanta del Novecento sono anni di tormento per la Prima Repubblica Italiana e i suoi cittadini, i quali vengono costantemente intimoriti e spaventati da azioni militari attuate per auspicare a una svolta autoritaria. Ma chi sarebbero stati gli artefici di queste stragi? Organizzazioni paramilitari, eversive e a volte segrete: molti movimenti violenti erano di matrice neofascista, come Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale o Rosa dei Venti; c’entrava spesso la Loggia P2 di Licio Gelli, la massoneria italiana, una «potente forza occulta in grado di condizionare il sistema economico e politico italiano»; infine, altri protagonisti provenivano all’infuori dall’Italia o erano collegati all’estero, ad esempio Gladio, un’operazione paramilitare promossa dalla CIA per contrastare il comunismo. Insomma, la strage di Piazza Fontana non è un solo e semplice fatto storico, ma il punto di partenza che ci permette di comprendere come il potere in Italia fosse stratificato, ambiguo e soprattutto subdolo.
Premessa: il contesto storico italiano per capire la strage di Piazza Fontana
In quel periodo lo stivale stava affrontando una forte scossa rivoluzionaria, capitanata da diversi movimenti studenteschi, operai e contadini con l’obiettivo di rompere con un passato tradizionalista e conservatore. Nel 1968 le scuole, le università, le fabbriche e le piazze contestano a gran voce i valori e le istituzioni del tempo, troppo arretrati per un’epoca in rapida evoluzione: chi protestava chiedeva il rispetto dei diritti civili, la parità tra uomo e donna, la rimessa in discussione dei metodi di insegnamento, l’inserimento dell’educazione sessuale nelle scuole (il giornalino La Zanzara del liceo ginnasio Parini recitava così: «La religione in campo sessuale è apportatrice di sensi di colpa») e così via. Insomma, le proteste erano connotate da un forte senso antimilitarista, anticapitalista e antimperialista. Le richieste dei giovani e degli operai del ’68 sembreranno banali e palesi, ma all’epoca avevano scatenato sdegno, ira e paternalismi vari ed eventuali. La messa in dubbio dei poteri costituiti, ovvero della borghesia conservatrice, cattolica, industriale e imprenditoriale causava continue manifestazioni che spesso risultavano in lotta armata. È proprio grazie alle rivoluzioni di quest’annata se siamo arrivati alla creazione dello Statuto dei Lavoratori, al referendum sul divorzio e sull’aborto e per l’inizio della liberazione femminile.
In un clima di maggiore consapevolezza ma anche d’instabilità politica avviene la strage di Piazza Fontana, definita da Treccani nel seguente modo: «la risposta di parte delle forze più reazionarie della società italiana, di gruppi neofascisti, ma probabilmente anche di settori deviati degli apparati di sicurezza dello Stato, non privi di complicità e legami internazionali, alla forte ondata di lotte sociali del 1968-69 e all’avanzata anche elettorale del Partito comunista italiano». Non per niente, le stragi dell’Italicus e di piazza della Loggia (Brescia, 28 maggio 1974) avvennero l’indomani della vittoria del referendum sul divorzio. Le infinite indagini hanno dunque rivelato che gli attentatori facessero parte di organizzazioni d’estrema destra, probabilmente legati a settori deviati dello Stato e forse con il benestare delle potenze internazionali: ancora oggi, però, non abbiamo certezze e sufficienti prove per condannare i presunti colpevoli. Il caso si chiude dopo quasi quarant’anni, nel 2005, quando la Corte di Cassazione ammette che la strage fu opera di «un gruppo eversivo costituito a Padova nell’alveo di Ordine nuovo» e «capitanato da Franco Freda e Giovanni Ventura». Eppure, quest’ultimi vennero assolti dalla Corte d’Assise di Bari: ergo, fino ad ora le famiglie delle vittime non hanno ancora ottenuto giustizia.
La storia della strage di Piazza Fontana: le indagini interminabili
Sembra un semplice venerdì di dicembre alla sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano: fa freddo e tutti sono indaffarati, molti si trovano infatti all’interno dell’edificio quando, alle 16:37, si avverte un forte boato. È scoppiato un ordigno esplosivo contenente 7 chili di gelignite, una sostanza più potente della dinamite: muoiono ben 13 persone sul colpo e i feriti sono 87, mentre la diciassettesima vittima morirà l’anno dopo a causa di una polmonite aggravata dalle lesioni subìte. Subito dopo, chi è accorso sul posto non può credere ai propri occhi: il pavimento del salone centrale presentava un cratere di oltre mezzo metro.
Fonte: Wikipedia
Proprio lo stesso giorno, nel breve arco di 53 minuti, avvengono altri attentati oltre a quello di Piazza Fontana: subito dopo quest’ultimo, alla Banca Commerciale Italiana in Piazza della Scala viene rinvenuta una bomba inesplosa, mentre in varie zone di Roma scoppiano tre ordigni, di preciso nel seminterrato della Banca del Lavoro in via Veneto (14 vittime), sull’Altare della Patria (4 vittime) e sui gradini del Museo del Risorgimento, che causa il crollo del tetto dell’Ara Pacis.
Il processo della strage di Piazza Fontana è travagliato e odisseico: inizialmente aperto a Roma, spostato poi a Milano per «incompetenza territoriale» ed infine a Catanzaro per «ordine pubblico» e «legittimo sospetto». La prima pista è quella anarchica e i circoli sotto accusa sono Ponte della Ghisolfa (Milano) e 22 Marzo (Roma): al primo circolo appartiene Giuseppe Pinelli, ferroviere milanese. La storia di Pinelli assume ancora oggi connotati misteriosi e macabri: quando viene arrestato, viene tenuto in stato di fermo per tre giorni dal commissario Luigi Calabresi. In questura, Pinelli non mangia, non dorme e viene pressato dai poliziotti, ma l’accusato continua a sostenere la propria innocenza. Così, alla mezzanotte del 15 dicembre, Pinelli muore cadendo dal quarto piano della Questura. Secondo le autorità quello di Pinelli è un suicidio, secondo una successiva sentenza del tribunale milanese Pinelli è morto per un malore attivo che gli ha causato la perdita d’equilibrio. Negli anni a venire sono fuoriuscite tutte le incongruenze del caso: ad esempio, il blocco di Pinelli sarebbe stato illegale, poiché il fermo non poteva durare più di 48 ore; l’anarchico Valitutti, interrogato nella stanza vicina a quella dell’amico, sarebbe stato l’unico a dichiarare la presenza di Calabresi alla caduta di Pinelli, a differenza delle autorità. Pinelli verrà vendicato da Lotta Continua, movimento comunista rivoluzionario, che ucciderà con due colpi di pistola il commissario Calabresi il 17 maggio 1972. Infine, il cadavere rinvenuto non suggerirebbe un suicidio o un malore: in primis, l’anarchico sarebbe caduto sfiorando il muro, il che escluderebbe l’ipotesi d’essere saltato fuori dalla finestra; il corpo non presentava escoriazioni e le mani non erano poste verso il basso, era forse già morto? Anche le chiamate all’ambulanza da parte della polizia risultano strane: secondo i tabulati, la chiamata sarebbe avvenuta prima della sua caduta. Fu proprio Carlo Biotti, il presidente del collegio giudicante del tribunale di Milano, ad indagare sulla morte di Pinelli poiché non convinto dei fatti. Biotti, infatti, chiese la riesumazione del corpo di Pinelli per farci un’autopsia e, dopo mesi di indagini personali, sopralluoghi e interrogatori, fu prima ricusato (27 maggio 1971) e in secondo luogo sospeso da ogni funzione. Da qui cominciò il suo processo che durò per ben sette anni: a Firenze sconterà la pena di un anno e gli verrà sospesa a vita la pensione. Così, il 25 ottobre 1975 venne archiviata l’inchiesta sulla morte di Giuseppe Pinelli e due anni dopo, all’ottenimento della piena assoluzione, il presidente Biotti fu colpito da un infarto sul molo di Alassio. L’ultima volta che si è parlato della misteriosa morte di Pinelli è stato nel 2020, quando i giornalisti Alberto Nerazzini e Andrea Sceresini hanno pubblicato le dichiarazioni dell’ex vicecapo del SID, il servizio d’informazioni segreto italiano, Gianadelio Maletti: «Pinelli si rifiuta di rispondere alle domande. Gli interroganti ricorrono quindi a mezzi più forti e minacciano di buttarlo dalla finestra. Lo strattonano e lo costringono a sedere sul davanzale. […] Infine perde l’equilibrio e cade. La morte dell’anarchico non era voluta, tutti i presenti furono colti da sgomento e apprensione. La verità non li avrebbe sottratti da gravi sanzioni penali. Perciò si impegnarono ad avallare, per il bene proprio e delle istituzioni, la tesi del suicidio».
Fonte: Youtube, canale di Gio Pizzi
Per quanto riguarda il secondo circolo, 22 Marzo, un altro nome esce fuori: Piero Valpreda, ballerino. Il 15 dicembre 1969 viene arrestato dopo la testimonianza del tassista Cornelio Rolandi, il quale sostiene di aver trasportato un uomo somigliante a Valpreda, che portava con sé una grossa valigia e lasciato proprio innanzi alla Banca di Piazza Fontana. Le parole del tassista verranno poi smantellate poiché il tragitto descritto dallo stesso Rolandi non avrebbe avuto senso: secondo la sua testimonianza, Valpreda avrebbe richiesto un passaggio di soli 100 metri per Piazza Fontana. L’accusato rimane comunque in carcere fino al 1972 ma viene poi rilasciato a seguito della promulgazione della legge 773/1982, che fissa dei limiti alla custodia cautelare. Viene però condannato a quattro anni e mezzo per associazione eversiva. In indagini successive si parlò di un sosia, il quale avrebbe preso il taxi al posto di Valpreda: secondo l’ipotesi questo sosia sarebbe stato Antonio Sottosanti, un ex legionario siciliano, ma quest’idea non venne mai riscontrata.
La seconda pista getta l’occhio sulla matrice neofascista: l’organizzazione che avrebbe commesso la strage sarebbe una sezione veneta che gira attorno ad Ordine nuovo, un movimento di eversione neofascista. Le figure più importanti di questa sono Franco Freda, editore e procuratore legale, e Giovanni Ventura, anch’esso editore: quest’ultimo è ricordato per la pubblicazione di Reazione, una rivista dalle esplicite inclinazioni neonaziste. Freda e Ventura vengono accusati di essere i progettatori dell’attentato ed emergono così altri complici, ad esempio l’Agente Zeta che si scoprirà più tardi essere Guido Giannettini, giornalista. Un altro nome che esce fuori è Adriano Romualdi, figlio del presidente del Movimento Sociale Italiano, d’ispirazione neofascista il cui logo avrebbe ispirato l’attuale partito Fratelli d’Italia: Romualdi muore a soli trentadue anni in un incidente stradale sulla via Aurelia il 12 agosto 1973, così ancora oggi non conosciamo appieno il suo coinvolgimento nella strage di Piazza Fontana e il suo rapporto con i servizi segreti. Infatti, proprio lui sarebbe stato l’unico in grado di chiarire le relazioni che intercorrevano tra Ordine nuovo e il SID. Nel 1979 il tribunale di Catanzaro condanna Freda, Ventura e Giannettini all’ergastolo ma tutti e tre fuggono all’estero prima del processo; due anni dopo verranno tutti e tre assolti. Nel 1982 la Corte di Cassazione rinvia il processo a Bari, assolvendo Freda e Ventura nuovamente per insufficienza di prove. Il 27 gennaio 1987 la Cassazione condanna alcuni personaggi dei servizi segreti italiani, ovvero il generale Gianadelio Maletti e il capitano Antonio Labruna per depistaggio.
Viene aperta quindi una terza indagine che vede come protagonista Stefano Dalle Chiaie, fondatore del gruppo rivoluzionario neofascista Avanguardia Nazionale: viene arrestato a Caracas ed è sospettato di essere l’organizzatore della strage insieme al militante di Ordine Nuovo Massimiliano Fachini, il presunto esecutore. Ancora, saranno entrambi assolti nel 1989 dalla Corte d’Assise di Catanzaro per non aver commesso il fatto.
Negli anni Novanta si apre un’altra indagine, la quarta, basata sulle testimonianze di uomini legati a Ordine nuovo e ad altre organizzazioni neofasciste. Il giudice Guido Salvini porta avanti quest’inchiesta aprendo un’altra ipotesi: la strage di Piazza Fontana sarebbe connessa al fallito tentativo di golpe Borghese. Quest’ultimo fu un tentato colpo di Stato avvenuto nella notte dell’Immacolata del 1970 da parte di Junio Valerio Borghese, fondatore di Fronte Nazionale, neofascista, in collaborazione con Avanguardia Nazionale e, dulcis un fundo, con il presunto supporto di Cosa Nostra, loggia P2 e CIA. Per motivi ancora oggi oscuri, Borghese all’ultimo annullò il suo intento. Tornando a Piazza Fontana, il giudice Salvini raccolse le testimonianze di Martino Siciliano e Carlo Digilio, ex appartenenti a Ordine Nuovo, i quali confessarono di aver preparato l’attentato assieme a Freda e Ventura: Digilio avrebbe valutato gli esplosivi e l’altro ordinovista Delfo Zorzi avrebbe personalmente piazzato la bomba. Escono fuori, quindi, altri nomi: oltre a Zorzi, Carlo Maria Maggi, Giancarlo Rognoni e Stefano Tringali. Il 30 giugno 2001 la Corte d’Assise di Milano condanna all’ergastolo Zorzi in quanto esecutore materiale, Maggi per l’organizzazione della strage e Rognoni per esserne stato il favoreggiatore: questo è un momento clou nella storia dell’attentato, poiché per la prima volta viene ufficializzata la responsabilità dell’estrema destra nella strage. Tringali viene invece condannato a tre anni di carcere, mentre Digilio viene prescritto. Alla fine, la sentenza viene nuovamente e completamente ribaltata: assoluzione piena per i tre condannati all’ergastolo per insufficienza di prove (Zorzi e Maggi) e per fatto non commesso (Rognoni). Si dice che Zorzi ottenne l’immunità all’estradizione perché oramai trasferitosi in Giappone, dove diventò un imprenditore di successo.
Qual è l’ultima e attuale sentenza? La responsabilità viene data a Freda e Ventura: la condanna viene confermata nel 2005 dalla Cassazione, ma l’esito finale non è, ancora una volta, quello sperato. Freda e Ventura non possono subire la pena poiché già stati assolti per lo stesso reato nel 1987. È così che si concludono le indagini su Piazza Fontana, dopo 36 anni e 10 processi: nessun colpevole ma solo tanta confusione e contraddizioni – o forse dovremmo dire depistaggi. In breve possiamo dire che sia stata accertata la responsabilità dei neofascisti, ma rimane comunque impossibile condannarli. Al termine del processo, ai parenti delle vittime sono state addebitate le spese processuali.
I funerali delle vittime in piazza Duomo, Milano.
Fonte: Wikipedia
In ultimo, s’è pensato ad un altro fatto: se nella strage di Bologna del 1980 c’erano le macchinazioni e i depistaggi della loggia P2 di Licio Gelli, perché non includere anche la strage di Piazza Fontana? In primis è giusto ricordare che, nell’aprile 2023, Licio Gelli è stato dichiarato mandante e finanziatore della strage di Bologna dalla Corte d’Assise della stessa città. Il 2 agosto 2023, l’ex magistrato Giuliano Turone, colui che scoprì assieme al collega Gherardo Colombo gli elenchi della P2, descrive i passati legami tra l’estrema destra, Cosa Nostra e Gelli: «[…] il precedente codice di procedura penale prevedeva la figura del giudice istruttore, che seguiva le indagini più complicate e godeva di una autonomia che la struttura gerarchica e burocratizzata delle procure non consentiva. Proprio questa garanzia di indipendenza ha permesso di scoprire la lunga catena di depistaggi, da quello della strage di piazza Fontana fino a quello di Bologna, messi in atto dai servizi segreti deviati».
Le affermazioni di Aldo Moro danno un’ulteriore prospettiva
Le indagini non affrontano mai nel dettaglio l’ipotesi internazionale. Nel suo memoriale, il presidente democristiano Aldo Moro esprime la sua opinione sui fatti di Piazza Fontana: i responsabili della strage e della strategia della tensione sarebbero dei rami deviati del SID in cui si erano insediati vari esponenti della destra con possibili influenze dall’estero. Disse Moro: «È mia convinzione però, anche se non posso portare il suffragio di alcuna prova, che l’interesse e l’intervento fossero più esteri che nazionali. Il che naturalmente non vuol dire che anche italiani non possano essere implicati».
Conclusione: l’impegno civile
Chiudiamo l’articolo con le parole di Pier Paolo Pasolini, le quali possono darci un interessante spunto di riflessione, o ancor meglio un input, un invito a tenere sempre uno spirito critico e oggettivo nei confronti della verità e dei fatti.
«Lombardi al Governo! Tra voi e il paese c’è un abisso. […]
E chi è sotto choc ride con gli occhi di Antonioni
Il quale attesta come parola di Dio e testimonianza di Gesù Cristo
e anche Pasolini ride,
tutto quello che ha veduto,
mentre Moravia è distratto, beato chi legge,
e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia.»
Questo è un piccolo estratto di Patmos, una poesia dedicata proprio alla strage di Piazza Fontana: con questo, il poeta e regista accusa la mancanza di attenzione da parte di politici e intellettuali nei confronti degli avvenimenti sociali. A causa della loro mancanza, politici e scrittori non erano riusciti a prevedere e a colmare le tensioni sociali del proprio tempo, che hanno poi portato a ciò che conosciamo oggi. In questo pezzo l’accusa è rivolta a Vittorino Colombo (Commercio estero), Camillo Ripamonti (Sanità) e Athos Valsecchi (Agricoltura), ma lampante è l’invito fatto allo scrittore Alberto Moravia: Pasolini infatti chiamò spesso in causa i suoi colleghi, soprattutto coloro che più stimava e apprezzava per convincerli ad impegnarsi civilmente. Costantemente, però, Pasolini riceveva in cambio il silenzio e veniva automaticamente gettato in pasto alle polemiche, poiché era uno dei pochi ad esporsi.
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