Più di sei femminicidi dall’inizio del nuovo anno e la lista di nomi continua ad essere inondata senza sosta. Le donne in cronaca nera, in questo caso, sono pugnalate ed oltraggiate in doppia misura: carnefice e mass media si impegnano a disegnare la figura femminile attraverso l’occhio ideologico e meccanico. Le notizie non tendono ad essere comunicate nella forma di un evento “puro”, siccome hanno il compito di mutare l’avvenimento in “storia”.
Malauguratamente, le donne in cronaca nera, specialmente nei casi di femminicidio, sono totalmente filtrate attraverso regole di codificazione ideologica e di cultura patriarcale. Perché ridurre uno stupro, un delitto, una privazione di libertà ad una serie di appellativi generali e umilianti? La condanna e la critica “velata” verso la vittima è molto alta: dipinta come “dittatoriale” e “traditrice”, incapace di ricambiare e comprendere a pieno l’amore ossessivo del suo partner. In qualche maniera, i ruoli arrivano ad essere invertiti e giovare il massacratore del reato, le diverse espressioni che appaiono nei servizi e sul web dimostrano questo processo: «L’amavo così tanto che l’ho ammazzata»; «Soffriva, l’ho fatto per lei»; «Senza amore mi sarei buttato». Viene costruita, quindi, la figura dell’uccisore come “uomo umiliato”, agente di uno scatto d’ira, emotivamente instabile all’interno di una cornice d’amore, colpito e offeso a causa di problemi finanziari e di separazioni coniugali. Purtroppo, tali nominalismi forniscono e costruiscono la storia della donna nei casi di cronaca nera.
Le donne in cronaca nera: Una colpa condivisa?
I mezzi di comunicazione, usualmente, mirano a motivare l’oppressione e il delitto di genere mediante una sequenza di comportamenti amorali (così considerati dalla società odierna) della vittima, avvenuti prima del crimine. Leggiamo: «Ha bevuto troppo», «Perché indossare un vestito così provocante?», «Uscire da sola in piena notte? Ecco perché succedono tali disgrazie», «Gli uomini son fatti così». Tali espressioni stereotipate in eccesso, sottolineano come le donne in cronaca nera siano sempre considerate, seppur vittime, le malfattrici del loro stesso criminale. La possibilità rubata di parlare e denunciare, è accompagnata dall’immagine diffusa da coloro che sono in dovere di informare con neutralità e controllo l’evento accaduto. Tutto avviene in automatico: l’odierno costrutto sociale impone il giudizio pervasivo su ciò che riguarda le scelte, il lavoro, l’abbigliamento e il comportamento della vittima donna. L’assassino? Probabilmente giustificato per un atto di pura incoscienza. Si preferisce mettere in rilievo atteggiamenti superflui al femminicidio in questione; lo strumento più proficuo è condannare il “brav’uomo”, “fidanzato timido”, “povero fallito”, con termini che non lo associno al volto di un mostro mai esistito, ma ad un individuo sano la cui certezza di poter modellare, a proprio piacimento, la vita di una donna è tale da ostacolare il desiderio di lotta contro la misoginia e la lista di femminicidi. C’è ancora tanta strada da percorrere al fine di porre un limite e garantire ciò che dovrebbe essere il minimo indispensabile per un essere umano: il diritto di scegliere, essere, diventare e vivere. Le donne in cronaca nera devono avere la possibilità di poter notificare la gravità del delitto ricevuto, e smascherare l’inganno e l’efferatezza di tutti i meccanismi che si celano dietro ai diversi pensieri ideologici insiti nel corpo sociale.
Fonte immagine in evidenza: Freepik