“Perchè non li avete arrestati?” – sbraita Beppe Grillo, leader politico del M5S, in un video pubblicato sul suo blog il 19 aprile scorso. “Ce li avrei portati io in galera, a calci nel culo! Perchè? Perchè vi siete resi conto che non è vero che c’è stato uno stupro”.
Lo stupro in questione o – meglio – la vicenda a cui Grillo si riferisce (e che ha ormai lasciato i banchi del tribunale per entrare prepotentemente nel dibattito pubblico) risale a tre anni fa, nel luglio del 2019. Ciro Grillo – figlio del fondatore del Movimento – è in vacanza in Costa Smeralda con alcuni amici. Una serata in discoteca, l’incontro con due studentesse, il ritorno nella villa di proprietà per proseguire la festa. Qui – secondo la ricostruzione dei pm – sarebbe avvenuta la violenza. Una delle due ragazze – una diciannovenne italosvedese – sarebbe stata costretta a un rapporto sessuale con un ragazzo del branco, poi “afferrata per la testa, costretta a bere mezza bottiglia di vodka e ad avere altri cinque o sei rapporti sessuali”. Anche la seconda ragazza, nel frattempo addormentatasi, sarebbe – secondo l’accusa – stata sottoposta a diverse umiliazioni.
Secondo Grillo, invece, da uno dei video agli atti “si vede che c’è la consensualità, si vede che c’è il gruppo che ride, che sono ragazzi di diciannove anni, che si stanno divertendo, che sono in mutande e saltellano col pisello così perché sono quattro coglioni, non quattro stupratori”.
Come se ognuna di queste condizioni (il gruppo che ride, l’età dei ragazzi) pregiudicasse l’eventualità di uno stupro. Un gruppo di ragazzi che ride non può star commettendo una violenza? Dei ragazzi di diciannove anni non possono commettere uno stupro? Ma, soprattutto, perché la consensualità della ragazza al rapporto sessuale dovrebbe emergere tenendo l’attenzione sul “gruppo che ride” e non sulla ragazza stessa?
Una ragazza che – sempre secondo Grillo – non può aver subito lo stupro perché “è strano che una persona stuprata la mattina, al pomeriggio va in kitesurf e dopo otto giorni fa la denuncia”. In altre parole: mente. Ed è esattamente questo il gioco: cercare di trascinare la vittima sul banco degli imputati, sminuire, mettere in dubbio, ridicolizzarne il dolore. Il tutto utilizzando la propria posizione di potere e la propria portata mediatica.
Grillo, il mito e la cultura dello stupro
In un minuto e mezzo, Beppe Grillo ha messo insieme molti dei pregiudizi che riguardano le violenze di genere.
In primo luogo, l’assunto per cui una donna violentata debba denunciare immediatamente per non essere additata come bugiarda. Nel cosiddetto “mito dello stupro”, infatti (ovvero la visione diffusa e radicata su come avvenga questo tipo di violenza), ci sono urla, pianti, tentativi ripetuti da parte della vittima di difendersi e sottrarsi al suo carnefice e, infine, una denuncia immediata dell’accaduto.
Nella cultura dello stupro, inoltre, le violenze e le molestie sessuali sono banalizzate, giustificate e alimentate attraverso battute sessiste, continua e spesso sottile colpevolizzazione della vittima, oggettivazione sessuale.
Ciò ci conduce a quella che viene chiamata (e citata anche nella Convenzione di Istanbul) “vittimizzazione secondaria”. Si tratta di un meccanismo molto potente e pervasivo, utilizzato nei tribunali, dai mezzi d’informazione, nella società, nel giudizio collettivo, ed è uno degli elementi che produce molte mancate denunce per violenza sessuale: l’idea che la propria esperienza di dolore possa venire minimizzata o negata o che addirittura la sua responsabilità venga rovesciata.
Il concetto sociologico di rape culture fu introdotto negli anni ’70 dal movimento femminista a partire dagli Stati Uniti e ripreso recentemente su più fronti, in particolare dal movimento del “Me Too”, per combattere la concezione che gli stupri e gli abusi sessuali siano casi eclatanti e straordinari, e non parte integrante di un preciso sistema sociale, culturale e ideologico.