Chi è l’anatomopatologo? Di cosa si occupa precisamente? In questo articolo vi presentiamo un’intervista gentilmente concessaci dalla dottoressa Stefania Erra, attualmente direttrice del laboratorio di Istopatologia e Citopatologia della clinica Santa Rita a Vercelli, che ci illustrerà in cosa consiste il suo lavoro e risponderà anche ad alcune domande su temi di attualità.
In cosa consiste la professione di anatomopatologo? Quali sono le sue mansioni?
L’anatomopatologo è colui che riconosce le lesioni ed è in grado di dar loro un nome. Sembra un concetto semplicistico, ma non lo è. Per esser più chiari, ma allo stesso tempo divulgativi, la medicina è un settore estremamente diversificato ed ultra specialistico, e lo diventerà sempre di più man mano che si evolve la tecnologia. La maggior parte dei medici clinici si interfacciano direttamente con i pazienti, che si rivolgono a loro per problemi di salute: patologie sintomatiche o follow up di malattie note. Ma i clinici non sono in grado di fare diagnosi di patologia o di un tipo di patologia senza il supporto di esami strumentali. Coloro che si occupano di effettuare e interpretare gli esami strumentali sono, appunto, i medici specializzati in radiologia, medicina di laboratorio ed anatomia patologica. Questi ultimi sono gli unici ad avere il privilegio di poter guardare davvero, in maniera diretta, le lesioni patologiche. Attraverso una serie di metodiche molto complesse, che non prescindono dai concetti di chimica e fisica che studiamo al liceo, l’anatomopatologo è in grado di “lavorare” il tessuto patologico, in modo tale da farlo “diventare” un vetrino da osservare al microscopio ottico. È solo così che le malattie dei pazienti hanno una diagnosi di certezza: sulla base della diagnosi anatomopatologica i medici clinici decidono l’atteggiamento terapeutico da attuare per quel determinato paziente (infatti, si parla di medicina personalizzata).
Quando ha deciso di voler intraprendere questo percorso? Cosa l’ha spinta a diventare anatomopatologo?
Ho deciso di diventare medico negli anni del liceo, per curiosità e per la voglia di capire e di aiutare chi è malato. L’anatomia patologica è arrivata dopo, quando, al quarto anno di medicina, ho iniziato a studiarla. Forse perché ho avuto bravi docenti, o forse per la mia forma mentis, predisposta a certi tipi di ragionamenti, questa materia, difficilissima per tutti gli studenti di medicina, era per me un libro aperto, che mi introduceva in un mondo fantastico, ricco di sfaccettature, dai mille colori e significati. Ora, dopo più di un quarto di secolo, il microscopio è diventato mio amico. Come tutti gli amici, sa consolarti, ma sa anche metterti in crisi. Insomma, come diceva una mia grande prof: “Non fai l’anatomopatologo, sei un anatomopatologo”, perché è una branca della medicina che ti trasforma, ti rende una persona vera: dandoti la chiave per interpretare la morfologia e le immagini, ti consente di oltrepassarle, guardando te stesso dietro l’immagine che hai e che manifesti al mondo.
Qual è l’aspetto più complesso del suo lavoro di anatomopatologo, a livello umano?
Sicuramente il burnout: lo vivono molti medici che gestiscono quotidianamente le patologie oncologiche. Anche per noi patologi, ci sono giorni in cui referti così tanti tumori, che inizi ad avere una percezione distorta della realtà, per cui senti l’angoscia di essere circondata da una popolazione di malati oncologici. In realtà, il raziocinio ti aiuta a capire che, fortunatamente, non è così: in anatomia patologica la selezione è operata a monte, cioè arrivano prevalentemente casi già screenati da altri medici e quindi fortemente sospetti.
Ritiene sia stato fondamentale trasferirsi al Nord Italia per continuare la sua carriera?
No, non è stato necessario trasferirmi al nord. Avrei trovato lavoro ed intrapreso la mia carriera di anatomopatologo anche a Napoli, perché, modestamente, sono molto brava nel mio settore e molto stimata anche in Campania. Sono andata via per altri motivi, variegati e diversi tra loro, non ultima la voglia di scoprire come si lavora in altri posti. Negli anni, ho avuto molte possibilità di tornare a Napoli, ma non l’ho fatto per motivi familiari: i miei figli sono nati in Piemonte e si trovano bene. Al sud andiamo in vacanza, un paio di volte all’anno.
Ritiene che il suo percorso sia stato più difficile da affrontare in quanto donna?
No, perché anche se donna, ho vinto molti concorsi e ho potuto scegliere dove lavorare. Sì, perché da donna lavoratrice e dirigente ho fatto molta fatica a conciliare la famiglia con il lavoro e, soprattutto, ho lavorato più di un uomo per affermarmi professionalmente in maniera, per me, gratificante.
C’è qualcosa che vorrebbe dire alle giovani donne che sognano di intraprendere una carriera nel mondo scientifico? Quali consigli darebbe loro?
In quanto docente universitario, ho notato che la maggior parte del mondo studentesco è costituito da donne: perché siamo più numerose degli uomini, siamo più riflessive, più pazienti, più caparbie, più costanti. Abbiamo, insomma, quelle caratteristiche richieste dal mondo scientifico per raggiungere obiettivi importanti. E poi, la scienza è femmina!
Ringraziamo infinitamente la dottoressa Erra per essere stata con noi ed aver risposto alle nostre domande.
Informazioni sulla dott.ssa Erra
Laureata in medicina e specializzata in anatomia patologica all’Università Federico II di Napoli nel 1998. Insegna Citopatologia presso la Facoltà di Medicina dell’Università del Piemonte Orientale ed è tutor aziendale per gli studenti di Biologia, Medicina e Tecniche di laboratorio. È inoltre autrice di numerosi report pubblicati su riviste nazionali ed internazionali e lavori presentati al Congresso Nazionale di Anatomia Patologica.
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