Dai social media al marketing, dalla didattica alla satira: i meme, dopo la loro apparizione rivoluzionaria nella genetica, si sono imposti come linguaggio universale della cultura pop che vale la pena approfondire. Vediamo, dunque cos’è in origine un meme.
In principio era il verbo, ora è il meme
Una immagine nota, qualche parola. Qualche volta nemmeno quella; è certo, però, che tutti i nativi digitali riconoscono i riferimenti, sia in assenza sia in presenza. Il meme è l’alfabeto umoristico di questa generazione che, dagli anni ’90 in poi, ha visto crescere le interconnessioni di un mondo in continua espansione. Questa generazione ha assorbito il meme come elemento virtuale creativo, lo ha fatto proprio: parla per meme. A riprova di ciò basta mostrare qualcuno dei meme più noti agli immigrati digitali: causerete disorientamento e incomprensione mentre vi chiedono «cos’è? Un me…me?!»
La memetica è una cosa seria
Cos’è un meme, linguisticamente parlando? Il fatto che il meme sia un prodotto della cultura Web 2.0, tuttavia, non vi inganni. Il termine meme compare nel 1976 nel saggio Il gene egoista del biologo evoluzionista e divulgatore Richard Dawkins. Nel testo Dawkins si suggerisce di cambiare il soggetto dell’evoluzione, così come Darwin l’aveva intesa, dalla specie al singolo gene. Dawkins descrive i geni, in biologia, come dei replicatori interessati a replicare, appunto, se stessi, tramite virus, piante, animali e uomini. Il loro veicolo di trasmissione è un set di specifiche caratteristiche fenotipiche: la specie è il beneficiario ultimo di questo processo di trasmissione; essi, infatti, sono trasmessi sessualmente per eredità tra un numero limitato di individui. Il meme, invece, può essere considerato un prodotto neurale del gene; è un gene che interagisce con l’ambiente in cui si manifesta e sviluppa. E cosa comporta l’ambiente? Una società costituita, dunque informazioni, dunque segmenti di cultura che è fondamentale trasmettere per la diffusione del meme. Perciò la loro trasmissione è pressoché illimitata, facilitati anche dal fatto che l’informazione nel sistema nervoso è più malleabile che nel DNA. Non è sorprendente, dunque, che negli ultimi diecimila anni la variazione genetica è stata minima mentre invece la cultura (l’insieme dei meme) ha subito sviluppi radicali. Allora, cos’è un meme? Le idee, le melodie, i comportamenti, le religioni. Prendete un kamikaze: disposto a rinunciare alla propria vita, a replicare i propri geni, per promuovere la diffusione di un meme ossia di una ideologia o una religione. Per l’assonanza con gene, quindi, Dawkins accorcia il termine greco mimeme, ovvero imitazione, in meme. Il meme, in breve, risulta come tutto ciò che nella cultura si propaga per imitazione, per variazione o selezione. Il meme sta alla cultura come il gene sta alla biologia.
Cosa ci sopravviverà: maneggiare con cura.
Ad un certo punto la memetica si fa carne e diventa quella di internet. Cos’è il meme, allora, socialmente parlando? La funzione originaria è rimasta intatta cioè il meme come veicolo di riproduzione di un frammento di cultura tramite una capillare trasmissione online. La caratteristica che soggiace a quasi tutte le catene memetiche, ovvero la parte fissa di un meme, l’immagine di base, è la funzione umoristica data dalla parte variabile, cioè il testo, la parte che interagisce con il contesto. Il meme, infatti, deve propagarsi in favore della comunicabilità di un contenuto. Con la proliferazione di Blog, wiki, social networks, piattaforme di video-sharing, stabilire una autorialità relativa ai meme è impossibile oltre che inutile: chiunque disponga di una connessione può partecipare al processo creativo e distributivo di questi segmenti di cultura: chiunque è un prosumer – crasi tra producer e consumer – di meme. La cultura digitale ha iniziato un graduale dissolvimento anche della funzione spettatore; si direbbe il prodotto perfetto in un mondo in cui non esistono barriere, il figlio di nessuno di quell’ ideale villaggio globale.
Nel 1998 Nicolas Bourriaud introduce il concetto di estetica relazionale ovvero di un’idea di arte che diventa tale grazie alla partecipazione del pubblico al processo creativo. Questa cultura partecipativa è la stessa che anima la dimensione digitale della nostra esistenza e, dunque, quella dei memi che stiamo tramandando in nome di una cooperazione perlopiù farsesca. Qualcuno si è chiesto se il meme, come strumento del linguaggio, possa essere considerato una forma di arte postmodernista, nella misura in cui fornisce una lettura spiccatamente ironica dei comportamenti all’interno di una società costituita; il meme è certamente oggi uno strumento ermeneutico pop. L’ironia, se da una parte raffina questi commenti transmediali a margine della realtà permettendone anche usi didattici e commerciali, dall’altra rende i suoi contenuti facilmente assimilabili e infinitamente reinterpretabili, camuffando discorsi approssimativi e clickbait, come esaustivi. Come un ritornello, il meme insinua il contenuto virale nel sistema nervoso dello spettatore come una cosa fatta e finita, senza necessità di approfondimenti. La realtà rischia di essere davvero creduta a una dimensione. Insomma, cosa ci sopravviverà in questa cultura partecipativa postmodernista? Forse, una società paradossale impegnata nella gestione di in una miriade di conflitti atomizzati: uno scherzo infinito.
Fonti:
Heylighen F. (1992): “Selfish Memes and the Evolution of Cooperation”, Journal of Ideas, Vol. 2, #4, pp 77-84.
Lolli, A. (2020): La guerra dei meme, Effequ Sas, Saggi pop.
Crediti foto: free memes