L’arte dello Shibari, l’antica pratica del bondage giapponese

Lo Shibari, l'antica arte del bondage giapponese

Quando parliamo di Shibari – o meglio di Kinbaku – ci riferiamo al bondage erotico nato e praticato in Giappone, una disciplina che consiste nel legare o immobilizzare un partner, in gergo il sottomesso. Nel tempo lo Shibari è diventato popolare in tutto il mondo come forma di BDSM e, infatti, i più accosteranno quest’attività ad una pratica erotica, ma è in realtà molto di più: ad oggi lo Shibari viene considerata un’opera d’arte, proprio per l’uso che si fa delle corde e dei nodi. Grazie alle diverse e all’apparenza complesse tecniche di legatura, il corpo del sottomesso diventa una sorta di scultura vivente: i nodi intrecciati e le lunghe e colorate corde sono come pennelli e decorazioni, dipingono il corpo come fosse una tela rendendo le curve morbide ed eleganti. Basti pensare che in antichità, per simboleggiare l’unione tra l’umano e il divino, le tradizioni del Sol Levante includevano nelle cerimonie religiose proprio la legatura.

Le origini: l’hojōjutsu

L’arte dello Shibari deriva da un’antica forma di schiavitù attuata nel periodo Edo (1603 – 1868), ovvero l’hojōjutsu, l’arte marziale che immobilizzava i prigionieri di guerra attraverso l’uso di funi di canapa e iuta. Questa si perfezionò nel XV secolo, quando le risorse metalliche scarseggiavano: così i samurai adottarono proprio le corde di canapa e di iuta per attuare l’hojōjutsu. Perciò i prigionieri non venivano spesso rinchiusi in una prigione, ma semplicemente immobilizzati con una corda. Quest’arte marziale era complicata già all’epoca, ma molto curiosa: ad esempio, veniva scelta la corda di un colore particolare per simboleggiare una stagione, una direzione cardinale e l’animale protettore della rispettiva stagione e direzione. La corda blu simboleggiava il dragone e quindi la primavera e l’est; il rosso, invece, invocava la fenice e quindi l’estate e il sud; il bianco rappresentava la tigre, che era simbolo dell’autunno e dell’ovest; la corda nera, infine, indicava la tartaruga, quindi l’inverno e la direzione nord.

Lo Shibari, l'antica arte del bondage giapponese
La tecnica del diamante, una classica legatura contenuta nell’hojōjutsu.
(Fonte immagine: Wikipedia)

L’antenata disciplina del bondage non si trova solo nell’hojōjutsu, ma anche nel teatro Kabuki, dove gli attori venivano legati in modo da ricreare pose e movimenti drammatici. Pian piano la legatura entra nell’immaginario erotico dei giapponesi grazie alle scene di coercizione contenute nei seme, un tipo di ukiyo-e, ovvero stampa artistica nipponica. Verso la fine del periodo Edo i colori delle corde vengono ridotti a due, ovvero il bianco e l’indaco, poiché simboleggiavano il ramo della forza armata che utilizzava le corde stesse. Queste erano di tre tipi: l’honnawa, la corda principale; l’hayanawa, una corda più breve e utilizzata per le legature iniziali; la kaginawa, una corda uncinata.

Il padre dell’arte dello Shibari: Seiu Ito


(Fonte immagine: Wikipedia)

Il fotografo e pittore Seiu Ito (1882-1961) è oggi riconosciuto come il “padre del Kinbaku” (termine usato come sinonimo di Shibari): è stato proprio lui a combinare le tecniche bondage con l’arte moderna. Seiu prese ispirazione dalle scene di costrizione del kabuki e le riadattò al corpo femminile, rinnovandone l’aspetto estetico e trasformandone la tecnica in una vera e propria disciplina. Famosi sono i momenti in cui Seiu chiedeva ai propri modelli di farsi legare per rappresentare appieno le torture del periodo Edo, prese come ispirazione per i suoi quadri. L’esempio più famoso è proprio quello di sua moglie Kise la quale, incinta del loro figlio, venne legata a testa in giù per ritrarre l’opera ukiyo-e La casa solitaria nella brughiera di Adachi del pittore e poeta Yoshitoshi. Dal 1950 in poi lo Shibari si diffuse a macchia d’olio grazie alle riviste Kitan Club e Yomikiri Romance, le prime a pubblicare foto di bondage.


Illustrazione de La casa solitaria nella brughiera di Adachi (1885) di Yoshitoshi.
(Fonte immagine: Wikipedia)


Dipinto di Seiu Ito, ispirato da Onibaba and her victims di Yoshitoshi.
(Fonte immagine: Wikipedia)

Lo Shibari oggi, il bondage creativo

In primis bisogna fare una precisazione sui termini Shibari e Kinbaku: di base si possono usare come sinonimi, ma il primo viene principalmente usato in Occidente. Shibari è un termine generico e ampio che indica l’atto di legare, mentre Kinbaku è più specifico – è composto da kanji che significato rispettivamente ‘stretto’ e ‘bloccare’ – poiché traduce il complesso intreccio di nodi fatto per legare e sospendere le persone. Shibari e Kinbaku sono quindi intercambiabili se usati per parlare del bondage giapponese; nel dettaglio, Shibari si riferisce a qualsiasi tipo di bondage con la corda, mentre Kinbaku indica la forma più artistica ed estetica del bondage stesso, quello di arte performativa, la quale si sofferma sulla bellezza dei nodi attorcigliati e dei legami tra le corde.

Il Kinbaku è quindi caratterizzato da rigide ed elaborate tecniche di nodi e legature, nonché dall’attenta cura della posizione del corpo del modello e della composizione della scena. Il vocabolario del bondage presenta anche i termini rigger o cima della corda, ovvero il dominante che lega la corda inferiore, cioè il sottomesso. In giapponese la corda in fibra naturale è chiamata asanawa: viene usata spesso la canapa poiché è simbolo di potere. Oltre alla canapa, la corda dello Shibari può essere in iuta, cotone e persino in lino, per essere ben resistente ma morbida.

Tra alcune tecniche di legatura c’è l’Ushiro takatekote, un legamento detto a scatola poiché circonda il petto e le braccia; questo è spesso la base di altre legature, come l’Ebi-tie o gambero, originariamente progettato come legatura di tortura del periodo Edo. Oppure il polsino Hojōjutsu, palesemente ispirato all’arte marziale omonima, il cui scopo è trattenere e stringere le braccia.


Rappresentazione dell’Ushiro takatekote.
(Fonte immagine: Wikipedia)

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