Chris Cornell: una delle pietre miliari del grunge, dalla musica alla vita
Questa è la storia di un ragazzo di 24 anni che calcava il palco a torso nudo, divorando il pubblico e il microfono con un timbro di voce che riecheggiava nel grigiore di una Seattle paranoica ma estremamente produttiva.
Questa è la storia di un buco nero che squarcia il sole, come recita la più famosa canzone del gruppo di quel ragazzo dai capelli lunghi, che ha scritto la storia del grunge prima ancora che le pagine ingiallissero e cominciassero a raggrinzire: quel buco nero Chris Cornell se lo portava dentro, così come se lo portavano dentro Kurt Cobain dei Nirvana, Layne Staley degli Alice in Chains, Andrew Bone dei Mother Love Bone e Scott Weiland degli Stone Temple Pilots.
Ad aprirsi è la storia di Seattle: lo sentite l’odore della metà degli anni ’80, la puzza del Teen Spirit, l’aroma penetrante dei boschi e della provincia americana? Grunge è una parola che si arrotola cruda in bocca, che ferisce quasi la lingua con la sola pronuncia: un ammasso di consonanti che sputa in bocca il sapore di una chitarra distorta, di accordi tradizionali spazzati via e ideali sgualciti come la svalutazione di ogni valore sociale.
Il Grunge in principio fu l’etichetta musicale Sub Pop, e la culla furono gruppi come Melvins, Mudhoney, Mother Love Bone: nel loro alveo si inserirono le urla strazianti di Bleach dei Nirvana, il caos equilibrato del leggendario album Ten dei Pearl Jam, il tormento degli Alice in Chains e i Soundgarden. I Soundgarden nacquero nel 1984 proprio dal corpo vivo di Seattle, giacché presero il nome da un’installazione artistica della città che produceva suoni al soffio del vento.
Chris Cornell fu da subito il tipico antieroe del classico romanzo di formazione grunge: un’adolescenza e una giovinezza costellate dalla depressione, due genitori in contrasto tra loro e la nausea pungente di una Seattle immersa nel nichilismo. Gli ingredienti per fare di Cornell una sagoma perfettamente cristallizzata nelle strette maglie di un canone ci furono tutti, fin dal principio; ma alle etichette sfuggì subito il grunge dei Soundgarden: ibrido, pieno di venature heavy metal e lontane dal noise di Bleach dei Nirvana, con una voce preponderante e vicina al timbro di Robert Plant dei Led Zeppelin.
Chris Cornell: perfetto antieroe di un’epoca che non tornerà più
Ci furono i fasti con Badmotorfinger, un album trascinato da singoli come Rusty Cage e Jesus Christ Pose, nello stesso anno, il 1991, in cui Nevermind dei Nirvana giganteggiava sul Seattle Sound. Ci fu Black Hole Sun, il brano più conosciuto di Cornell e compagni, diventato un’istituzione anche per va del suo videoclip, allucinato e visionario (vincitore dell’MTV Video Music Award), con eclissi sparse, una Barbie consumistica che si muove meccanicamente e una bambina che si sbrodola, più emblematica della bambina Ku Klux Klan del video di Heart Shaped Box dei Nirvana.
Chris Cornell si impose fin da subito come uno dei numi di questo genere musicale e di vita, un perfetto antieroe che raggiunse subito una maturità limpida, lucida e trasparente. Poi ci fu il progetto parallelo Temple of The Dog, che Cornell stesso definì supergruppo in memoria dell’amico Andrew Wood, cantante dei Mother Love Bone morto per overdose di eroina, e che comprendeva Cornell e Cameron dei Soundgarden e i futuri membri dei Pearl Jam.
In Call me a dog c’è l’anima del musicista, il suo nucleo più privato, l’afflato più nero e affilato di quasi tutta la sua produzione. La cavalcata continuò con gli Audioslave, che Cornell fondò nel 2001 con Tom Morello dei Rage Against the Machine: uno spazio da esplorare che si immerse fin da subito in praterie più melodiche e meno dure ( basta ascoltare pezzi come Be Yourself, Like A Stone, I’m the highway).
Tanti numi da piangere, e pochi punti di riferimento al giorno d’oggi
Kurt Cobain nella sua Serve The Servants, all’inizio dell’album In Utero, cantava: Teenage angst has paid off well/now I’m bore and old. La boccetta di Teen Spirit s’era esaurita e, come tante pedine scarnificate, le divinità e i padri del grunge cominciarono ad assumere tratti somatici disperatamente umani per rifugiarsi in un bozzolo di autodistruzione e buchi neri. Lo stesso buco nero che Cornell cantava e si portava in seno e che lo ha svuotato dall’interno come una stella ormai fredda e morta: Chris è stato l’unico dei numi del grunge a superare il mezzo secolo d’età, a superare la nausea, il vomito di un’epoca tanto straziante quanto significativa, è stato un antieroe che si è ritrovato a vivere al di fuori del romanzo in cui era nato.
Cobain e Staley non hanno visto gli anni Duemila, sono rimasti bloccati in una lapide ai confini della memoria, hanno lasciato cadaveri giovani, gradevoli e muti per sempre nello scriteriato limbo della loro epoca. Cornell ci ha provato, sembrava essere riuscito a superare le cicatrici e le abrasioni di quella Seattle mai abbandonata o dimenticata, mai riassorbita del tutto e mai digerita.
Ma il 17 maggio ha cantato del suo buco nero per l’ultima volta. Prima di consegnare il suo ultimo respiro a una fascetta per esercizi ginnici, prima di biascicare parole insensate al telefono alla moglie Vicky e dirle di aver preso una o due pasticche in più di Atavin. Ciò che è accaduto è inspiegabile. Nessuno può affermare con certezza se sia stato o no un gesto voluto o realizzato nella piena incoscienza. Quella sera il buco nero del sole è sprofondato per sempre nell’oblio, assieme a uno degli eroi di un’epoca che non tornerà più e che rimarrà una pagina strappata in un romanzo che ha perso tutti i suoi personaggi e tutto il suo inchiostro.
Rimangono Eddie Vedder e Dave Grohl, ultimi superstiti di una fiamma che s’è consumata bruciando la sua stessa cera e provocando ferite che non si rimargineranno mai, che sanno di aroma di muschio e foreste di provincia.
Chris, dovunque tu sia noi ti perdoniamo, anche se te ne sei andato via senza avvisare.