La lingua di Shakespeare resta l’eredità più preziosa e affascinante del Bardo, un vero alchimista delle parole.
«Dobbiamo portare in noi qualcosa dell’attore […], del vero artista, il quale con il sangue del proprio cuore dà vita alla parola morta», sostiene Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff in Introduzione alla tragedia greca, pubblicata come prima parte del commento all’Eracle di Euripide.
È luogo comune e parere di autorità incontestabili che il senso delle opere di Shakespeare possa essere compreso pienamente solo a teatro. Un’affermazione alla quale il regista inglese Richard Eyre controbatte fermamente che «le opere teatrali vivono sempre nel linguaggio, non indipendentemente da esso. Sentimenti e pensieri si comunicano nella recitazione. Il pubblico elisabettiano avrebbe reagito alla pulsazione, ai ritmi, alle forme, ai suoni, soprattutto ai significati, nel contesto regolare del verso decasillabo con cinque accenti tipico del blank verse inglese. Quello di allora era un pubblico che ascoltava».
E se le sue parole continuano ancora a riecheggiare e il suo linguaggio continua, più di ogni altro aspetto, ad ammaliare, evidentemente la lingua di Shakespeare è tra le maggiori eredità che possediamo del poeta, per chi è in grado di ascoltare come il pubblico del suo tempo.
Lo splendore della lingua: l’eredità di Shakespeare
Roberto Mercadini, lettore tra tanti, ascoltatore appassionato, ma anche poeta e narratore teatrale romagnolo, in occasione dei 400 anni dalla morte di Shakespeare, ha portato in scena un monologo proprio sul grande artista, dal titolo La più strana delle meraviglie, dove la più strana meraviglia non è, come nell’Amleto, la visione di un fantasma, ma proprio la magia della parola.
Nel chiacchierare sul Bardo, Mercadini rivela: «Parlo di Shakespeare con le frasi che lui ha usato per parlare di tutti noi. Quelle frasi che sembrano già dire ogni cosa. E di fronte alle quali si pensa, a volte, “il resto è silenzio”. Ciò che ancora ci interessa di Shakespeare è il suo lussureggiante linguaggio. Mi basta pensare che ha inventato migliaia di parole mai usate prima nella lingua inglese per farmi diventare matto.
Vedi, di Shakespeare non interessa più, ormai, il plot, la macchina narrativa, per altro piena di falle drammaturgiche. Interessa invece, ed è vivissimo, lo splendore della lingua. Che coincide con la ricchezza dell’animo umano, dell’intelletto, della persona che ha inventato quella lingua e che serve come antidoto alla lingua di oggi, stereotipata, banale, esangue. […] Tutto l’uomo, d’altronde, l’iniezione dei desideri, l’apoftegma della carne, è intriso di linguaggio».
La lingua di Shakespeare: tra scena e parola
La relazione tra scena e parola nelle opere shakespeariane, infatti, sembra trascendere ogni luogo comune e pervenire ad una complementarità rara. Laddove la parola trova la sua anima nella voce e nel tono dell’attore, la scena sembra prendere forma grazie all’estrema potenza immaginifica della parola, in grado di evocare, quasi disegnare, come fosse su tela, ciò che concretamente e scenicamente non può essere rappresentato: buio, luce, alba, notte o voluta ambiguità; espediente reso necessario dalla limitatezza dei mezzi scenici a disposizione.
La parola risuona, dunque, sempre su due binari: all’interno della trama e sul palco del teatro. Lo stesso Coleridge sostiene che la più grande potenza della parola shakespeariana è di «infondere nella mente un’energia che costringe l’immaginazione a produrre la poesia», evocando attraverso un solo epiteto o un unico aggettivo un’immagine, così da unire mondo ideale e mondo reale.
Un teatro onnivoro quello di Shakespeare, come onnivoro è il linguaggio che del suo teatro si fa veicolo e anima e che il Bardo sa usare con impareggiabile maestria. Il lavoro di Shakespeare, infatti, va ben oltre la semplice utilizzazione dei fenomeni linguistici, arriva alla loro drammatizzazione e assume piena e reale consapevolezza delle proprie possibilità, specchio e maschera delle sfaccettature del genere umano. Qui è l’origine della dimensione “meta” del suo linguaggio, che rende la parola oggetto del commento esplicito e attraverso cui il drammaturgo riesce a portare la lingua sulla scena. Un commento esplicito che spesso giunge anche ad un vero e proprio scetticismo verso il segno linguistico, se Juliet afferma «What’s in a name? That which we call a rose/ By any other word woul smell as sweet» (Romeo and Juliet, II, ii, 43, 44) e Falstaff «What is honour? A word» (Henry IV, V, i, 132), ma soprattutto Amleto nel suo «words, words, mere words» nella seconda scena del secondo atto.
La crescente complessità delle opere di Shakespeare
La sua complessità è più nella lessicologia che nella sintassi e nulla sembra essere lasciato al caso. Le parole latinizzate, ad esempio, lungi dall’essere puro sfoggio di erudizione, essendo polisillabiche, trovano giustificazione nella loro ritmicità, soprattutto quando accostate a parole di origine anglosassone. Straordinaria è anche la capacità di formare nuove parole; più di 1700 sono i neologismi creati, trasformando nomi in verbi, verbi in aggettivi, accostando parole prima mai usate insieme, aggiungendo prefissi e suffissi, per descrivere o riprodurre nel modo più preciso possibile una determinata immagine in un contesto specifico, sfidando i limiti dell’ineffabile.
Il neologismo non si caratterizza come pura sperimentazione lessicale, ma come oggetto di comicità o anche, spesso, come specchio di un intenso lavorìo della mente che risponde all’esigenza del poeta di imprimere nei suoi lettori/spettatori «un sublime sentimento dell’inimmaginabile in luogo di una semplice immagine».
E bisogna riconoscere che, oltre che individuale, il linguaggio di Shakespeare risultava (e risulta, ancora) difficile non perché poco familiare, ma per l’uso sempre più originale e strano che il drammaturgo ne fa man mano che raggiunge la piena maturità della sua produzione.
Nei primi lavori, nel pieno rispetto delle convenzioni, le regole della composizione poetica coincidono con quelle della retorica e frequentemente si incontrano accorgimenti retorici abbastanza comuni quali la ripetizione, l’allitterazione, l’anafora, l’epistrofe, l’epanalessi; è quindi quella giovanile ancora un’arte artificiale e artificiosa, convenzionale ed esplicita.
La complessità delle sue opere aumenta nel tempo, così come più complesso diventa l’animo dei suoi personaggi. E sempre più limitato, dunque, si fa il nostro intelletto, di fronte al dispiegarsi del massimo genio di Shakespeare.
Non solo parole
Tale complessità molto spesso ha ancora la meglio sull’ingegno degli studiosi e costringe, a volte, ad abbandonare il singolo problema di comprensione e a giudicare la lingua di Shakespeare, citando Coleridge, «bella in sé», seppur incomprensibile. Molte cose ancora ci sfuggono, nella stessa misura in cui molte cose ancora sfuggono della conoscenza dell’animo umano, allo stesso modo.
Non sembra, però, che questo abbia mai intaccato, ora come allora, la bellezza delle opere in questione né il loro successo di pubblico.
Il drammaturgo George Chapman nella prefazione di Ovids Banquet of Sense, afferma: «Se la poesia dovesse essere chiara come l’eloquenza e la semplicità il suo particolare ornamento, sarebbe una semplice via verso la volgarità…non serve ad un abile pittore dare forma, disegnare la figura di un volto, solo per far sapere ciò che rappresenta, egli deve disegnare, dar lustro, sfumare e mettere in rilievo; che sebbene gli incolti lo troveranno saporito, tuttavia avere tale prospettiva di giudizio, farà vedere che esso ha movimento, spirito e vita… L’oscurità, nell’ostentare le parole e concetti confusi è pedante e infantile, ma laddove essa si nasconde nel cuore del suo argomento pronunciato con proprietà di forma ed epiteti espressivi; con tale oscurità lavorerò per essere offuscato; i ricchi minerali vengono estratti dalle viscere della terra, non si trovano sulla sua superficie o nella sua polvere».
Le idee sono veicolabili e comprensibili solo attraverso le parole che le descrivono; amore, quindi, e cura per res et verba sono il motore della poesia.
«Le tue opere non sono semplici grandi opere d’arte, sono fenomeni di natura […]. In essi nulla vi è di vano o d’inerte e, più lontano noi incalziamo con le nostre scoperte, e più scorgeremo prove di disegni e di ordinamenti divini là dove occhi distratti non arrivano a vedere che puri accidenti!”40, afferma Thomas De Quincey. Questo vale anche e soprattutto per le parole, mai puri accidenti, mai «Words, words, mere words» – per citare Amleto – , ma molto molto di più.
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