Il Buddhismo in Giappone: quando è arrivato?

Il Buddhismo in Giappone: quando è arrivato?

Il Buddhismo costituì il primo elemento della civiltà cinese adottato consapevolmente dal Giappone, passando per il tramite della Corea. Proveniente dall’India, fu introdotto in Cina già nel I secolo a.C., prima di giungere nell’arcipelago nel VI secolo d.C. 

Quando si parla di arrivo del Buddhismo in Giappone è importante far partire la trattazione dall’analisi delle fonti storiche di cui disponiamo e che ne attestano la trasmissione. Secondo il Nihon Shoki, (日本書紀, “Annali del Giappone”, scritto nel 720), testo alla base della prima letteratura giapponese e che si prefigge di scandire gli eventi più importanti della storia del Paese sino a quel momento, la religione di origine indiana fu introdotta nel 552. Nel corso della storia, tale dato è stato però confutato diverse volte, infatti altre fonti, più o meno coeve tra loro, riportano un dato differente; è per questo motivo che convenzionalmente si riconduce l’arrivo del Buddhismo in Giappone all’anno 538, che coincide con il cosiddetto Periodo Asuka, dal nome del primo tempio Buddhista costruito: il tempio Asukadera. In quell’anno, il principe Kudara, monarca del regno di Paekche (attuale Corea), invitò l’allora Imperatore giapponese Kinmei ad abbracciare la fede Buddhista. Inviandogli una statua di bronzo del Buddha e dei sutra (testi sacri per il Buddhismo Mahāyāna), nutrì la speranza di ottenere il suo appoggio contro il regno rivale di Silla. Infatti, in quel periodo, i tre regni coreani indigeni di Paekche, Silla e Koguryŏ erano in lotta per determinare il proprio dominio sulla penisola e capitava non di rado che il Giappone si trovasse coinvolto. 

Qual era la situazione politica del Giappone? Alle lotte per il potere tra i diversi clan della corte Yamato, si aggiunse una disputa dai connotati religiosi: il tentativo di introdurre a corte il Buddhismo celava l’intenzione di scalzare i clan legati alla tradizione Shintoista. La classe dominante si trovò divisa in due fazioni: quella dei conservatori, tra cui spiccano i Mononobe e i Nakatomi, quest’ultimi famiglia di sacerdoti Shintoisti che rifiutava la nuova fede; dall’altra parte, c’erano i progressisti, rappresentati principalmente dal clan Soga, il quale sosteneva che l’introduzione di questa religione avrebbe portato vantaggi al paese. Il pesante clima di conflitto culminò con la vittoria dei Soga contro il clan Mononobe nel 587, evento che pose le basi per un’epoca densa di cambiamenti sociali e culturali. La conseguenza principale di tale accadimento si realizzò nell’adozione del Buddhismo da parte della corte e ciò comportò, ovviamente, l’adesione anche dell’Imperatore. Cosa ne fu dello Shintoismo allora? A differenza di cosa ci insegna la tradizione storica occidentale, lo Shintoismo rimase vivo nelle credenze popolari giapponesi, dando prova di un sincretismo che si perpetua nella contemporaneità.

Ogni discussione sul Buddhismo Asuka, così definita la sua prima fase in Giappone, non può prescindere dal citare la figura di Shotoku Taishi (聖徳太子), nome con cui fu conosciuto dopo la sua morte il Principe Umayado, nipote dell’Imperatrice Suiko. Egli è ricordato come un grande uomo di cultura e politico, che comprese perfettamente il pensiero cinese e la filosofia Buddhista. Stilò la cosiddetta “Costituzione dei 17 articoli”, che fissava i codici di comportamento di governanti e sudditi nell’ambito della società Buddhista, di chiaro stampo Confuciano. In più, propose dei commentari dei tre maggiori sutra. Al di là di tutta la tradizione artistica e letteraria a lui associata, gli storici giapponesi contemporanei ammettono la difficoltà di attestare tutto ciò che compete la sua figura, e che sia piuttosto da attribuire ad un’opera di idealizzazione.

Al di là del dato storico nudo e crudo, è certo che si stava comprendendo la funzione che la nuova religione doveva assolvere: quella di strumento di rafforzamento e sostegno del potere politico.

Fonte foto: Wikipedia

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