Ci troviamo nel Giappone di epoca Tokugawa quando entra nel lessico comune il termine “bunjin” (文人). Derivante dal più antico cinese “wenren”, è traducibile letteralmente con l’espressione “uomo di lettere”. Esso, tuttavia, non può essere ascritto alla mera definizione di “letterato”, ma al più identifica una particolare condizione esistenziale, una scelta consapevole di chi voleva dirsi devoto alla via del sapere.
Bunjin come stile di vita
Possiamo individuare delle caratteristiche peculiari condivise dalle personalità ricordate con l’appellativo di bunjin. Esse non attengono a una singola arte o un unico modo di fare arte, ma si estendono al punto da rispecchiare un innovativo modo di concepire se stessi e il mondo, in un contesto culturale e sociale che già risentiva dei primi segnali di cambiamento.
Quali sono queste caratteristiche? Una di esse è la spiccata versatilità, non soltanto nella scrittura, ma nelle più vaste branche della conoscenza: i bunjin erano maestri nell’arte pittorica, nella prosa tanto quanto nella poesia, nella calligrafia, esperti dei rudimenti della cerimonia del tè e, talvolta, conoscitori delle scienze. Tale eclettismo diviene la base di una scrittura non meno distinta da un’impronta più leggera, ricca di humor, satira e, quando necessario, un pizzico di cinismo, in linea con l’allontanamento dagli autoritari precetti confuciani su cui si era eretto lo shogunato del tempo, seguendo la riflessione di Adriana Boscaro ne “La narrativa giapponese classica“. Altro elemento tipico è la ricerca dello stile e dell’eleganza, cosa che comportava il contestuale e necessario disprezzo per lo “zoku” (俗): la grossolanità, la volgarità. La dialettica antitetica tra la categoria del “ga” (雅), ciò che è alto, refinito, e lo “zoku“, ciò che è basso, plebeo, ha come conseguenza una continua ricerca estetica, in ossequio all’antico precetto di art pour art o, utilizzando le parole del famoso poeta di haiku Matsuo Bashō (松尾 芭蕉) di «arte come forno d’estate e ventaglio d’inverno». Il bunjin non è interessato a calarsi nel tessuto sociale a lui contemporaneo. La preferenza nei riguardi di una vita in solitudine non è da confondersi con il distacco dal mondo illusorio della classica “letteratura di romitaggio” di Kamo no Chōmei o di Kenkō Hōshi; qui, la solitudine non si traduce in un allontanamento fisico, quanto ideologico, politico. All’etica dell’impegno civile si sostituisce l’idealismo, il distacco dalla materialità, dalla brama del guadagno.
In quel tempo, l’arcipelago giapponese aveva ormai da tempo adottato una politica di chiusura, il cosiddetto “sakoku” (鎖国). Tra le riforme dell’era Kyōhō (享保), nei primi decenni del 1700, evidenziamo quella volta ad allentare le restrizioni sull’importazione dei libri dall’estero e, più nello specifico, dalla Cina. Quali libri vengono importati, dunque? La Cina è sempre stata un punto di riferimento culturale per il Giappone; non sorprende quindi vengano riprese le opere in cinese classico. Ma non sono le uniche oggetto di interesse. Iniziano a veicolare anche opere popolari, in vernacolare, di genere fantastico e particolare seguito ebbero le storie sui fantasmi. Chi rese rilevante lo studio del cinese parlato fu il filosofo Ogyū Sorai (荻生 徂徠). Egli fondò una scuola a suo nome, di stampo confuciano e per lo studio del cinese colloquiale si servì proprio di storie sui fantasmi. Anche Asai Ryōi (浅井 了意) – figura che si ricollega alla definizione di un genere letterario celebre in epoca Tokugawa, l’ukiyo-zōshi (浮世草子) – inserì in una sua raccolta di racconti, l’Otogibōko (1666), un adattamento in giapponese di una storia cinese, la cui versione originale, però, era più antica e in lingua classica.
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