Il mito di Sisifo: il più umano tra gli umani

Il mito di Sisifo

Da Il mito di Sisifo di Albert Camus:

«La sola vera via d’uscita è proprio là dove, secondo il giudizio umano, non ve n’è alcuna. Altrimenti, perché avremmo bisogno di Dio? Non ci si rivolge a Dio per ottenere l’impossibile. Quanto al possibile, gli uomini soli vi bastano».

Cos’è l’Assurdo?
Non ha bisogno di consenso alcuno. Irrompe nel giorno e lo invade e persiste, non per essere sconfitto, ma per ricevere accoglienza, esattamente come si fa spazio la sofferenza tra le gioie della vita.
Non è un trampolino per il Regno degli dei, non vuole approdare sull’Olimpo, solo toccare il cuore, assaporare la carne e il sangue.
Non ambisce all’evidenza: non ha volto, è pura assenza.

Se l’uomo diventa capace di integrarlo nel suo vissuto, non c’è «divorzio», ma congiunzione. La sua immagine è quella della fusione di un corpo con il macigno che porta addosso. Bisogna abbandonare l’estasi dell’Altrove. Rinunciare al «grande salto», rimanere ancorati a terra, e – una volta radicati – provare l’ebbrezza del volo.

Se si pensa alla fatica con gioia anche un masso può avere il peso di una farfalla

Il mito di Sisifo compare per la prima volta nell’Odissea (XI, 745 e ss.), la semplicità del suo contenuto non farebbe pensare nell’immediato a un’interpretazione così complessa e pregna di esistenzialismo come quella portata avanti da Camus nel suo intramontabile saggio. Nell’Ade Sisifo viene condannato da Zeus a compiere un gesto apparentemente inutile e funzionale a nessuno scopo, se non quello di patire: dovrà trascinare su una montagna un masso dalle dimensioni enormi destinato a rotolare giù ogni volta. Il gesto si ripeterà per l’eternità, lo sforzo è infruttuoso. Il senso qual è?

Una causa non c’è, o meglio, è irragionevole e infondata. Difatti assurda è la condizione di chi giace sulla terra e vi «è stato gettato» con un’azione che ciclicamente rivendica ancora e ancora la sua «gratuità». L’uomo è «un apostolo del pensiero umiliato» che nulla può dinanzi all’illogicità dell’esistenza. Sisifo, nella versione di Omero, era tra i mortali il più prudente e saggio. Un’altra tradizione lo ritrae, invece, come un brigante. Egli è dicotomia in carne ed ossa, contraddizione intrinseca negli esseri viventi. La sua colpa? L’attaccamento morboso alla vita, il gusto per le passioni travolgenti, il rifiuto della superiore posizione delle divinità. Sisifo paga il prezzo di essere il più umano tra gli umani, conscio dei limiti del suo stato.

Il filosofo francese si attiene alle filosofie esistenzialiste per la sua analisi saggistica di quest’essere mitico che è Sisifo, con il fine ultimo non di donarci una speranza, ma di restituirci l’immaginazione per pensarlo e pensarci felici. Filosofi come Chestov, Kierkegaard, Jaspers tendono a divinizzare il fardello che li schiaccia, in ciò che li indebolisce riescono a scrutare un potenziale ottimismo. Sisifo non è uno che spera, e qui Camus si spinge oltre: raggiunge le vette dell’inumano nell’accettazione stessa dell’inconsistenza del pensiero e svuotando di significato la parola speranza. L’ammissione della possibile presenza di una qualche trascendenza corrisponde alla resa, alla sconfitta, ovvero alla sensazione ultima che non sia possibile più alcuna interpretazione e spiegazione chiara e univoca del reale. Si tratta della cieca fiducia che rende la vita degna di essere vissuta. Bisogna avere fede nell’Assurdo come fosse un Dio. La razionalità diviene un’illusione. Questa consapevolezza – dapprima struggente e angosciante – si trasforma poi nell’unica modalità per continuare a subire il peso gravoso di un traino “sgangherato”, ma trascinarlo ancora, come se si compiesse un atto vittorioso per la stessa continuità e perseveranza che lo caratterizza.

Così l’insoddisfazione perenne – che non va confusa con l’inquietudine -, il rifiuto – che è perpetua ripartenza e non mera rinuncia -, e l’assenza di un credo assumono la forma mitopoietica di una gigantesca lotta per la resistenza.

Ne Il mito di Sisifo Camus spiega che lo scorrere del tempo si dispiega come una conversazione intima tra sé e sé, tra sé e il circostante, che però non risponde, se non con frasi inframmezzate e indecifrabili. Citando Kierkegaard, afferma: «il più sicuro dei mutismi non è quello di tacere, ma di parlare». Non esistono dogmi, né verità assolute. Di qui la perdizione, il senso di smarrimento. Restare e non scegliere la via del suicidio vuol dire familiarizzare con il brusio, il chiacchiericcio vuoto del quotidiano che ogni tanto, se si ascolta bene, tira fuori anche qualcosa di straordinario.

Allora «mondo» e «assurdità» finiscono per significare la stessa cosa: entrambi confluiscono nello spirito e lì combattono, ora insieme per la sopravvivenza, ora l’uno contro l’altra per raggiungere l’essenza del presente, la motivazione profonda del vivere. Stasi e movimento, ribellione e resilienza, generale e particolare, unità e frammentazione: tutti gli opposti – consistenza prima e origine stessa del Creato – giocano, fluttuano e si manifestano sul terreno dell’inesplicabile, che l’intero Globo rappresenta.

Il richiamo che Sisifo sente e che lo aiuta a sopportare la fatica infernale è quello nostalgico di un vivente aggrappato, imperterrito, alla stessa pietra, la quale gli si scaglia contro per il semplice motivo di non saper mostrare la trasparenza della sua consistenza.

L’universo è un enigma irrisolto. La soluzione non esiste. Non ci resta che camminare senza mai fermarci. Il mito di Sisifo ci insegna che, durante la salita, con le spalle curve e il volto stanco, la felicità apparirà come un bagliore improvviso negli occhi: ecco la meraviglia. Sisifo è distrutto, ma felice.

A proposito di Chiara Aloia

Chiara Aloia nasce a Formia nel 1999. Laureata in Lettere moderne presso l’Università Federico II di Napoli, è attualmente studentessa di Filologia moderna.

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