Kafū Nagai (荷風 永井, 1879-1859), pseudonimo di Sōkichi Nagai, nacque in una famiglia cosmopolita; suo padre era un amante di tutto ciò che era esotico e un gran viaggiatore, suo nonno era un kangakusha (漢学者, cultore di studi cinesi) e sia sua madre che sua nonna si erano convertite al cristianesimo.
Quando da adulto partì per l’estero, infatti, l’ambiente a stampo internazionale in cui era cresciuto e la sua posizione sociale agiata, gli permisero di scrivere dell’occidente senza traccia dei complessi d’inferiorità o del disagio comunemente descritti dagli scrittori giapponesi riguardo i loro anni all’estero (come nel caso di Natsume Sōseki).
Una volta ritornato in Giappone, intraprese la missione di imprimere su carta l’effimero mondo residuale, costituito dalle usanze squisitamente nipponiche che, pian piano, stavano scomparendo.
Infanzia e adolescenza di Kafū
Il giovane Kafū era un amante del kabuki, delle belle arti e del mondo del Mizu-shōbai (水商売, ambiti lavorativi che non prevedono un minimo salariale ma si basano sulla popolarità del prodotto o dell’artista); si divideva tra lezioni di canto jōruri (浄瑠璃), shamisen e shakuhachi , finché i genitori non lo forzarono a interrompere tutto, sperando di correggere la sua indole da esteta.
Dopo una prima fase caratterizzata da uno stile autobiografico, una forte fascinazione nei confronti del naturalismo francese di Émile Zola, e dai cinque anni passati all’estero tra Stati Uniti e Francia, da cui nacquero America Monogatari (アメリカ物語, Racconti americani, 1908) e Furansu Monogatari (フランス物語, Racconti francesi, 1909), tornò in patria e realizzò che il Giappone, come lo conosceva lui, stava inesorabilmente mutando.
Ormai rapito da questo effimero mondo residuale, decise di utilizzare come ambientazione dei suoi racconti quasi solo ed esclusivamente i quartieri della low city di Tōkyō, ancora inviolati dalla modernizzazione e caratterizzati da atmosfere mistiche, tipiche del mondo fluttuante.
Il ritorno in Giappone
Nel 1909, tornato dalla Francia, scrisse Il Sumida (すみだ川) , una breve cronaca di abbandono dell’infantilità e di passaggio all’età adulta in una società che cambia a ritmi insostenibili.
[Spoiler in arrivo]
Il protagonista, Chōkichi, come era capitato allo stesso scrittore, viene ostacolato dalla madre, ormai succube di ciò che la modernizzazione ha imposto, nella sua formazione artistica e nella crescita personale.
La sua amata Oito è destinata a diventare una geisha e a scomparire dalla sua vita tra le trame del mondo residuale da cui lui si sta inesorabilmente allontanando, per volere della genitrice.
Neanche suo zio Ragetsu, artista nel cuore e uomo di mondo, sembra potergli dare il supporto di cui necessita.
In uno sfondo grigio e silenzioso, si nasconde lo spettro del capitalismo, individuabile nel passaggio “di tanto in tanto, tra una casa e l’altra si vedevano gli enormi cancelli delle fabbriche. Gli alti tetti di tegole erano di un tempio quasi in rovina“. Si tratta di simboli dell’incontrastabile anelito di scalare la gerarchia sociale, della condizione vacillante del Giappone e della critica personale di Kafū nei confronti di un paese che stava lasciando che i tratti più incantevoli della sua tradizione sbiadissero, per acquisire solo i lati negativi di quella occidentale.
Ed è così che i dintorni dei sobborghi di Tōkyō, che Chōkichi attraversa, cambiano col suo stato d’animo. Solo quando è giù di morale ne nota lo squallore e il degrado.
Il Sumida è una storia di lotta contro i poteri forti, corrotti da una nuova mentalità di stampo capitalistico. Nonostante lo stampo un po’ pessimista, il finale aperto, con Chōkichi in bilico tra vita e morte in seguito a un singolare tentativo di suicidio, e suo zio Ragetsu deciso ad aiutarlo a intraprendere qualsiasi strada egli scelga, lascia trapelare un messaggio di tenue speranza.
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