Il porto sepolto di Giuseppe Ungaretti | Analisi della poesia

Il porto sepolto di Giuseppe Ungaretti

Il porto sepolto di Giuseppe Ungaretti, analisi e riflessioni

Il porto sepolto
Mariano, il 19 giugno 1916

Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde

Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d’inesauribile segreto

A distanza di più di un secolo i versi di Giuseppe Ungaretti sanno ancora piombare sull’occhio che li attraversa con tutto il peso specifico di una rivelazione. Attraversare è proprio il termine indicato. La sua è una poesia che non si fa leggere, si fa attraversare. Profetica e attualissima al contempo, la sua eco non si disperde, ma rintocca con la cadenza di tutte le cose che occultiamo nel nostro porto sepolto.

La solitudine delle parole di Giuseppe Ungaretti è garanzia della loro grandezza, un po’ come accade tra gli uomini. La loro verticalità è simbolo della loro statura, alta, monumentale. Il verso franto infrange la nostra disattenzione, le nostre dissimulazioni. Versi liberi, come lo era lo spirito di Ungaretti, inguaribile sperimentatore ma eternamente classico, alla ricerca di un significato sia nel deserto della sua Alessandria d’Egitto che nelle montagne d’Italia, la prima cosa che lo suggestiona quando decide di visitare Lucca, la terra dei suoi avi.
La brevità di questi versi fa la loro longevità. Ungaretti ci consegna la descrizione di una sorta di rito sacro che non capiamo. È lui a capirci.
Il suo porto sepolto rende insepolta la nostra verità più recondita.

Il porto sepolto di Giuseppe Ungaretti: che cos’è il porto sepolto?

Il porto sepolto di Giuseppe Ungaretti non è solo uno. Sono due. Il porto sepolto della sua infanzia biografica, quello che gli frullava nell’immaginazione per una leggenda che circolava ad Alessandria d’Egitto, suo paese natale. Gliene avevano parlato due amici egiziani, di questo porto inabissato nel mare, che tutti conoscevano e nessuno aveva mai visto.

Il secondo è un porto sepolto simbolico, spirituale, un giaciglio color nero pece dove dormono inquietudini, nevrosi, attese e tutte le parole con cui potremmo esprimerle.
Ungaretti inventa un viaggio. Immagina di cacciare la testa nell’abisso del mare e di nuotare fino a questo porto sepolto. Di raccattare i canti, i fogli sparsi, gli scritti abbozzati che vi sono conservati, intatti sul suo fondo. Di ordinare i versi che imprimeva, in fretta e furia, nella carta che avvolgeva le pallottole con cui doveva sparare in guerra. È un pellegrinaggio, un viaggio iniziatico che compie per la sua umanità e per la propria umanità. Risale con la stessa testa che aveva cacciato in quell’oscurità e disperde i suoi canti. Cioè ce ne fa dono. E ci restituisce un porto ora insepolto, in cui è ben visibile il nostro segreto, quello che volevano conservare inabissato.

Il miracolo della poesia di Ungaretti è proprio questo. Attraverso una parola che diventa assoluta, sacra e solissima, essa sa cantare la verità che ognuno dissimula, il segreto che tentiamo di ottenebrare, il ricordo che non doveva riemergere.
Il porto insepolto è un luogo mitico, ma anche tremendo per la sua tangibilità: è l’armadio dove giacciono i nostri scheletri, il letto dove si mimetizza il nostro mostro, è il sogno morto stecchito nel nostro cassetto. È anche un porto mancato, perché le nostre ombre, i nostri spettri e le nostre aspettative non approdano mai davvero, ma si sperdono al largo.

Il nulla e il tutto ne Il porto sepolto (e insepolto) di Giuseppe Ungaretti

Nella seconda parte Ungaretti torna a mettersi in scena; parla di sé, ma parla a tutti.
Nato in un luogo, Alessandria d’Egitto, che non era quello del suo sangue, formatosi in Francia, tornato in Italia e girovago in tutto il mondo, non aveva una sola patria.

Ungaretti è perciò uomo tra gli uomini, all’ossessiva ricerca di radici, di un senso di appartenenza che gli farà intraprendere la guerra solo per imparare l’amore per la vita e per l’uomo, per sentirsi un rigagnolo d’acqua in un fiume. È il suo unanimismo, che gli farà scrivere capolavori come Veglia o I fiumi.

Adesso ci sono un nulla e un segreto a monopolizzare la scena. Il nulla di Ungaretti non è mai vuoto, è sempre assenza. E l’assenza non è mai assoluta perché implica una presenza, precedente o attesa. Il nulla di Ungaretti è un porto sepolto in cui attingere con il setaccio della parola il grande segreto. Quindi, un porto insepolto, dove tutto quello che si è cercato di soffocare riaffiora e ricomincia a respirare.

E invece, qual è questo segreto? Se qualcuno riuscisse a dirlo, non sarebbe più segreto. Ma Ungaretti lascia intendere che sia proprio quell’assoluto che la sua parola mira a stringere, quella verità di cui si fa silenziosa portavoce. È il nostro segreto, quello che molesta la quiete del sonno, quello che torna a perturbare al primo barlume della veglia. Sono tutte le domande irrisolte che ci tampinano, e tutte le risposte che stentiamo a darci. Quel segreto siamo noi uomini inquieti cercatori di un approdo, ma anche di un’origine.

Ma, come diceva Giuseppe Ungaretti, la meta è partire.

A proposito di Duilia Giada Guarino

Il mio nome è Duilia e sono laureata in Filologia moderna. La mia vocazione più grande è la scrittura, in tutte le sue forme.

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