“Chiamiamo invece Ribelle chi nel corso degli eventi si è ritrovato isolato, senza patria, per vedersi infine consegnato all’annientamento. Ma questo potrebbe essere il destino di molti, forse di tutti – perciò dobbiamo aggiungere qualcosa alla definizione: il Ribelle è deciso ad opporre resistenza, il suo intento è dare battaglia, sia pure disperata. Ribelle è dunque colui che ha un profondo, nativo rapporto con la libertà, il che si esprime oggi nell’intenzione di contrapporsi all’automatismo e nel rifiuto di trarne la conseguenza etica, che è il fatalismo.”[1]
La citazione è tratta dal “Trattato del ribelle” di Ernst Jünger (Heidelberg, 29 marzo 1895 – Riedlingen, 17 febbraio 1998), filosofo e scrittore tedesco legato al clima delle due guerre mondiali, alle quali partecipò.
Secondo la definizione data dallo scrittore, il Ribelle è colui che vive isolato, opponendosi alla società lobotomizzata e all’ “automatismo” che ne deriva. La figura del “ribelle” sembra “un modo di essere”, un apolide in costante ricerca della libertà che si oppone alla dittatura.
Ne consegue, dunque, la ricerca di un cambiamento radicale, che, però, è visto da molti più come un nemico ostile e scomodo, tale da provocare il timore della massa. La dittatura, infatti, si mostra intenzionata, affinché giunga ai suoi scopi lesivi per lo Stato, a servirsi di mezzi quali le schede elettorali al fine di promuovere campagne che non garantiscono i bisogni della società.
Il ribelle e la società: liberarsi dagli schemi
È il singolo che agisce nel caso concreto, cui occorre ”passare al bosco”, per ritrovare il proprio Io e non essere abbagliato da illusioni che lo distolgano dalla realtà. Difatti, il corrispettivo titolo tedesco del trattato è “Der Waldgang”, ossia “Colui che passa al bosco”.
Infatti, “passare al bosco” significa sostanzialmente liberarsi da tutti “gli schermi” che la società impone. Significa, anche, abbandonare tutti quei bisogni metallici che illudono in vista di un benessere apparente. Inoltre significa conoscere profondamente il proprio Io, scegliendo in questo modo, il proscritto, un ritiro privato, che lo allontani dalle esigenze e dalle illusioni della massa, per avere piena coscienza di sé e della vera libertas.
Anche sul piano morale l’individuo presta attenzione alla libertà, unico mezzo per sottomettere la paura. Egli si sacrifica per la massa per contrastare e attingere soltanto, individualmente, alle proprie idee di libertà. Infatti Jünger propone come modello un uomo che guarda al collettivismo, un essere anarca che, tra i singoli individui, obietti a quella dittatura forte dell’ingenuità comune.
Il ribelle come resistenza all’automatismo
Il “Trattato del Ribelle” è una sorta di anticipazione dei problemi che agiscono nell’ambito sociale odierno, manifestandosi in costumi volgari e opinabili, ben accetti solo a chi si lascia corrompere da affascinanti, ma ambigue, parole. Proprio per questo, lo scenario politico jüngeriano non si differenzia da quello moderno.
Vi è un individualismo arrogante e prepotente nello Stato, legato all’egocentrismo di politici datati e pronti a costruire infondate aspettative in un cambiamento che, nei fatti, non arriva. Secondo Jünger, un cambiamento radicale può coesistere col mutamento della forma della libertà. Questa, infatti, non è nulla di “materiale”, ma è “esistenza” pura.
E, tutt’oggi, l’ideale di libertà è un’aspettativa di molti, pur in assenza dei mezzi necessari per concretizzarla. Lotte tra partiti e uomini sediziosi certamente non rianimano il clima di crisi e di disagio di una società già inondata da false illusioni e deperimento intellettuale di giovani ipnotizzati dall’irrealtà. E’ necessario costruire uno Stato che elimini le radici marce per far posto a giovani germogli capaci di “passare al bosco”.
[1] Ernst Jünger, Trattato del ribelle, Adelphi, (pp. 41-42)