Per parlare di issei gyōnin dobbiamo dirigerci sul Monte Yudono, nell’odierna prefettura di Yamagata, situata nella regione del Tōhoku (東北地方), in Giappone. È un luogo peculiare, questo, perché vi si rintraccia un’alta concentrazione di vere e proprie mummie, tale da renderlo un luogo dalla forte energia spirituale.
Anche se si chiama “monte”, non si tratta di una montagna, ma di una grande roccia vulcanica localizzata nella cosiddetta “Valle degli Immortali”, in giapponese “Senninzawa”. L’articolo preso in riferimento è “Devotion in Flesh e Bone” del professore Andrea Castiglioni, il quale pone la sua attenzione sulla pratica dell’issei gyōnin nel periodo Tokugawa, della mummificazione dei cadaveri degli asceti e della risultante venerazione di queste mummie come Buddha viventi.
Ci dice Castiglioni che la popolarità dell’issei gyōnin derivava dalla pratica del “ritiro ascetico dei 1000 giorni”, il “sennichi-gyō”. In cosa consisteva? Era un rituale di autoreclusione sul monte Yudono. Tuttavia, la nota più interessante rintracciabile nell’articolo è la sfida al preconcetto per cui queste pratiche comportassero la solitudine e il segreto totale. In realtà, per essere valide e riconosciute, non solo doveva contare dei fedeli, ma quest’ultimi avevano l’onore di finanziarle economicamente. Il consenso sociale era necessario, dunque. Quando un eminente gyōnin moriva, i discepoli e i devoti ne mummificavano il corpo e lo collocavano, per un dato periodo di tempo, in una sorta di cella sepolcrale interrata, affinché il corpo si essiccasse e diventasse un'”icona di cane e corpo”, in giapponese letteralmente “nikushinzō”. Il corpo dell’asceta veniva venerato come un oggetto di culto, un Buddha “vivente”, ovvero un “sokushinbutsu”, così da realizzare l’antica idea di buddhità in un corpo. In altre parole, si cercava di provare fattualmente che era possibile realizzare la buddhità in questa vita.
A livello concettuale, la vittoria contro i processi di decomposizione segna il momento topico in cui il corpo diventa incorruttibile, va al di là della storia, valica la parete della storicità per rientrare nella metastoricità. Trascendendo la dimensione fisica, si assiste alla metamorfosi del corpo dell’asceta, che diventa il canale preferenziale per trasmettere l’idea di perfezione.
Quando e dove compare la prima testimonianza del termine “issei gyōnin”? Dobbiamo risalire ad alcuni scritti classificatori locali, databili tra il 1603 e il 1604, da parte di gruppi di asceti proveniente da Yudono. Essi richiedevano che fosse riconosciuto lo status religioso di questa prassi. La risposta positiva derivò dal fatto che tale pratica aveva il fine dell’Illuminazione, in termini buddhisti, se non altro con l’abbandono del proprio corpo fisico. I voti degli asceti erano quelli di accumulare grandi meriti religiosi, ma il tutto era finalizzato a che i credenti ne traessero beneficio. In caso di grandi o decisive battaglie, gli issei gyōnin fungevano da catalizzatori tra i patroni, coloro che finanziavano questo rito, e gli dei. Anche tra i patroni vi erano divisioni sociali, in base alle somme che erano disposti a pagare. Alla fine del periodo dei 1000 giorni, il nome dell’issei gyōnin era preceduto dall’appellativo di “asceta mangia-legno”, seguito da un titolo più comunemente buddhista di “shōnin”. La categoria di corpo vivo e l’ormai divenuta statua confluiscono insieme, così come afferma lo studioso.
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