La sindrome di Stendhal, nota anche come “sindrome di Firenze”, è un disturbo psicosomatico che provoca sintomi fisici e psicologici in alcune persone quando si trovano di fronte a opere d’arte di straordinaria bellezza, soprattutto in spazi ristretti. Il nome deriva dallo scrittore francese Stendhal (pseudonimo di Marie-Henri Beyle), che per primo descrisse i sintomi di questo disturbo nel suo libro “Roma, Napoli e Firenze” (1817), dopo una visita alla Basilica di Santa Croce a Firenze.
Le origini della sindrome di Stendhal: il viaggio in Italia dello scrittore
Marie-Henri Beyle, meglio conosciuto come Stendhal, nacque a Grenoble il 23 gennaio 1783 da una famiglia borghese. Rimasto orfano dopo la morte della madre all’età di sette anni, fu allevato dal padre autoritario e dalla zia Seraphy – dalla doppia personalità – che lo descrisse come un “uomo molto affettuoso” e un “genio cattivo fin dall’infanzia“. Oltre alla pressione mentale del padre, subì anche la tirannia del suo precettore, l’abate Raillane.
Amante della matematica, della storia dell’arte e appassionato dell’Italia (dove visse a lungo), esordì in campo letterario nel 1815 con le biografie di Haydn, Mozart e Metastasio, seguite nel 1817 da Una storia della pittura italiana e da Un libro di ricordi e impressioni di Roma, Napoli e Firenze. A quest’ultimo libro diede, lo pseudonimo di “Stendhal“, probabilmente ispirato alla città tedesca dove era nato l’apprezzato storico e critico d’arte Johann Joachim Winckelmann.
Furono in particolare i suoi lunghi viaggi e soggiorni in Italia a coniare quella che sarà definita nella psicologia la “sindrome di Stendhal“. Gli appunti di viaggio di Stendhal coprono infatti la penisola e illustrano come lo scrittore francese classificò il suo itinerario: «… È un rapporto con le persone, un tessuto vivace di contatti personali». Gli appunti dello scrittore comprendono luoghi, monumenti, paesaggi, persone, mezzi di trasporto, prezzi e valuta, un vero e proprio universo di descrizioni.
Definizione e sintomi della sindrome di Stendhal
Fu quando giunse a Firenze che riportò nel suo libro il 1817 “Roma, Napoli e Firenze”: «Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere».
Durante una visita alla Basilica di Santa Croce a Firenze, lo scrittore provò un tale disagio e ansia per la visione della basilica che descrisse in prima persona gli “effetti sperimentati”. Solo molti anni dopo, il disturbo fu analizzato e classificato per la prima volta dalla psicoanalista freudiana italiana Graziella Magherini in un libro pubblicato nel 1989, quando ha aiutato centinaia di turisti stranieri nell’ospedale fiorentino in cui lavorava con eccitazione, disturbi dell’umore, disturbi del pensiero e attacchi di panico durante la visione di opere d’arte. La sindrome di Stendhal è un disturbo psicofisico in cui, secondo la ricerca psicologica, si manifesta un malessere diffuso con sintomi psicosomatici quando si assiste alla bellezza di opere d’arte e di architettura, soprattutto in spazi ristretti. Conosciuta anche come “sindrome di Firenze“, poiché il maggior numero di pazienti è stato registrato nella città toscana, i sintomi si manifestano quando professionisti dell’arte e non si trovano in situazioni altamente emotive.
Sintomi fisici
I sintomi della sindrome di Stendhal possono variare da persona a persona e comprendono: tachicardia, vertigini, svenimenti, difficoltà respiratorie, sudorazione eccessiva, stanchezza generalizzata.
Sintomi psicologici
A livello psicologico, la sindrome di Stendhal può causare: confusione mentale, allucinazioni, attacchi di panico, euforia incontrollabile, depressione, senso di disorientamento, depersonalizzazione (non sentire più il proprio corpo) e derealizzazione (percezione distorta del mondo esterno).
Le cause: un’immersione nella bellezza
Le cause esatte della sindrome di Stendhal non sono ancora del tutto chiare. Si pensa che la combinazione di fattori psicologici e fisiologici possa scatenare il disturbo in individui predisposti. L’esposizione a un’opera d’arte di straordinaria bellezza, soprattutto in un contesto emotivamente carico come un viaggio in una città d’arte, può sovraccaricare il sistema nervoso, provocando una sorta di “corto circuito” emotivo. Alcuni studiosi ipotizzano che la sindrome sia legata a un’eccessiva stimolazione di aree cerebrali coinvolte nell’elaborazione delle emozioni e nella percezione estetica. Come risultato di questa sindrome, i pazienti entrano in una sorta di “trance meditativa” davanti a un’opera d’arte o a un capolavoro.
Diagnosi e trattamento della sindrome di Stendhal
La sindrome di Stendhal non è riconosciuta come una vera e propria malattia dai manuali diagnostici di psichiatria, ma è considerata un disturbo psicosomatico transitorio. La diagnosi si basa sull’osservazione dei sintomi e sull’esclusione di altre possibili cause mediche. Non esiste un trattamento specifico per la sindrome di Stendhal, ma in genere i sintomi si risolvono spontaneamente allontanandosi dall’opera d’arte che ha scatenato il disturbo. In alcuni casi, può essere utile un breve periodo di riposo in un ambiente tranquillo e, se necessario, un supporto psicologico per gestire l’ansia e il disagio.
La sindrome di Stendhal nella letteratura: Il Padiglione D’Oro di Mishima Yukio
La sindrome di Stendhal è analizzabile come un vero e proprio tema nella letteratura ed un esempio particolarmente accurato è la psicologia di un personaggio presente nel romanzo dello scrittore giapponese Yukio Mishima Il Padiglione D’Oro.
Mishima Yukio è stato uno dei principali scrittori della letteratura giapponese del XX secolo. Lo scrittore aveva un impegno molto forte nei confronti della bellezza e sposava l’ideale classico della Grecia occidentale di bellezza nella cura del corpo. La Grecia ha cambiato Mishima e gli ha anche trasmesso un’idea di bellezza che avrebbe caratterizzato la sua vita intima e il suo lavoro di scrittore. «La Grecia è la mia terra amata», scrisse nel suo diario di viaggio, «I greci sapevano come immortalare la bellezza». Con una formazione Zen e buddista pura, Mishima vedeva la bellezza come qualcosa di sublime, qualcosa da sperimentare e non qualcosa da cui allontanarsi, come insiste il buddismo.
Per lo scrittore, la bellezza è come «un seducente spirito maligno che ti rapisce, ti rende schiavo, e dal momento in cui ti coinvolge, non c’è modo di uscirne se non distruggendola», proprio come farà Mizoguchi, il protagonista del romanzo. Mizoguchi riporta perfettamente i sintomi della sindrome: «Mentre lo guardavo, le mie gambe davvero tremarono e le mie guance si rigarono di sudore freddo» p. 64 e «presto tornai in me.»
La soluzione e la cura per guarire dalla sindrome di Stendhal è sicuramente quello di “allontanarsi da ciò che provoca emozioni contrastanti“, in questo caso il Padiglione D’Oro e Mizoguchi per liberarsene, lo incendierà: «La bellezza è come un dente guasto…deve essere estirpato».
La sindrome di Stendhal nel cinema: Dario Argento (1996)
Nel 1996, il regista Dario Argento ha deciso di dedicare un intero film alla sindrome di Stendhal, creando un film che riassume perfettamente e visivamente i sintomi di questo disturbo. Un maestro del thriller come Dario Argento ha sempre attinto alle proprie ossessioni personali per coinvolgere il pubblico in incubi senza fine. Il protagonista del film non è l’unico a soffrire di delirio, poiché un agente di polizia muore nel corso del film, lasciando che il protagonista soffra di un delirio ancora più grande. La storia del film ruota attorno a Anna Manni (Asia Argento), una giovane donna in visita alla Galleria degli Uffizi di Firenze che ha allucinazioni inspiegabili e sviene quando vede un dipinto esposto.
La sindrome, il sentimento di disagio che colpisce alcune persone di fronte a un’opera d’arte di incredibile bellezza e che ha ispirato al regista la lettura dell’omonimo libro di Graziella Magherini sulla sindrome, sembra a prima vista sembrare solo un pretesto per lo svolgimento della sceneggiatura in modo anticonvenzionale e del tutto fuori dagli schemi. In altre parole, l’Argento degli anni ’90 è soprattutto un padre che cerca di fare i conti con la propria immagine e con il cinema, dando libero sfogo alle proprie valvole emotive e cercando di reinterpretare sé stesso in modo più riflessivo che mai.
Stendhal, come il cineasta, attraversa traumi e trasformazioni, un universo tutto argentiano, dove l’arte stessa è violenza e anche i luoghi simbolici del cinema (le componenti urbane) sembrano essere stati sostituiti da una dimensione più antica e ancestrale suggerita dalle reliquie della provincia (Viterbo) e da un mondo molto lontano nel tempo scatenato in mezzo al mondo.
Conclusione: convivere con la sindrome di Stendhal
Ecco perché “la sindrome di Stendhal” è anche un film di cambiamento, difficile da accettare per alcuni, ma necessario per cercare di (ri)vedere da una prospettiva diversa molte cose che sarebbero accadute in seguito. La sindrome di Stendhal, pur non essendo una malattia, è un fenomeno affascinante che testimonia il potere dell’arte di emozionare e sconvolgere l’animo umano. Sebbene possa provocare disagio e malessere, rappresenta anche un’esperienza unica e profonda, che ci ricorda la straordinaria capacità dell’uomo di connettersi con la bellezza e di lasciarsene travolgere.
Fonte immagine in evidenza: dal film di Dario Argento ”La sindrome di Stendhal” (1997)