Conosciamo tutti Elena di Troia, figlia di un rapporto extraconiugale tra Leda e Zeus, la consacrata donna più bella del mondo, vittima essa stessa della propria bellezza, ragion per la quale spesso viene esentata dalle responsabilità della tragedia omerica. Ma un’altra donna, dalle simili sfortune e brame d’amore, agli inizi del XX secolo rivide il suo personaggio, russa e anticonformista: Marina Cvetaeva.
Elena rappresenta “l’eterno femminino”, candida e spesso rappresentata dal cigno, sa essere bianca e nera. Nata probabilmente da un uovo, l’estrema femminilità risiede nel suo mistero. Alcuni ipotizzano che sia la figlia della dea Nemesi, piuttosto che di Leda, prova della mortalità e l’ostilità che risiedono nella sua delicatezza. La dualità è un altro elemento chiave della sua figura: Elena è stata l’amore più bramato e la peggior distruzione per ogni uomo che le si sia avvicinato; alcune versioni narrano, inoltre, che sia stato proprio “il doppio” di Elena – un ologramma – a recarsi a Troia con l’amante Paride. Del resto il suo stesso nome ha origini incerte, e può significare lucentezza (fiaccola) o soggiogamento e cattura ( dalla radice greca hel)1.
Ciò che Marina Cvetaeva ci fa vedere di Elena è, però, un lato del personaggio estremamente scorticato e (auto)distruttivo. Capiamo che l’autrice si posiziona anche in contrasto con lei, sottolineando tutte le mancanze e le tragedie di cui la semplice indifferenza di Elena è principio. È anche curioso pensare che, sposata con Sergej Efron, Marina abbia vissuto diversi amori extraconiugali per mitigare l’immenso fuoco che portava nel petto, ma che la poetessa, a differenza di Elena, abbia sempre chiesto ai suoi amanti di rinunciare a una vera vita insieme. «Io devo essere amata in modo del tutto straordinario per poter amare straordinariamente», scrisse ad Aleksandr Bachrach, un giovane di cui era invaghita, a cui scriveva lettere e dedicava poesie.
Marina scrisse già due tragedie – Arianna e Fedra – in cui rivisitava personaggi femminili della mitologia e avrebbe voluto che Elena fosse la terza, ma il progetto non andò mai in porto. In una lettera a Bachrach nell’agosto del ’23 scrisse: «Ho un enorme volume tedesco: spesso si parla di Elena, alla fine mi è venuta voglia di sapere chi era e – nessuno! Semplicemente si è lasciata rapire. Paride è un incantevole nullità, assomiglia al mio Lauzun, E che cosa stupenda: proprio a causa loro – le guerre!» 2.
Qui il testo della composizione del 1924:
Così – soltanto Elena guarda ai tetti
di Troia! Nelle pupille fisse
quattro provincie dissanguate,
cento secoli privati di speranza.
Così – soltanto Elena al macello nuziale
sapendo: dalle mie nudezze
a quattro Arabie è sottratta la calura
a cinque mari – ogni perla.
Così Elena soltanto (torcersi di mani
non aspettarti!) trasecola allo sciame
di successori al trono senza casa
e capostipiti scagliati nella guerra.
Così Elena soltanto (implorazioni delle labbra
non t’aspettare!) trasecola al fossato
straripante di successori al trono:
alla sterilità di cento stirpi.
Ma no! Non Elena! Non la bigama
Predatrice, spiffero di morte.
Ah, che tesoro hai sperperato
tu che negli occhi ci guardi
come neppure Elena alla cena fastosa
osava – nelle pupille dei suoi schiavi:
gli dei. “Dalla straniera svirilito il paese!
Sempre di nuovo striscia come il bruco!”3
“Così – solo Elena guarda i tetti” è un incipit che arriva subito e ci fa immediatamente collocare Elena in un’estetica post-apocalittica: la scena viene forse dal III canto dell’Iliade, ossia dal momento in cui dalla torre, Elena scorge il duello tra i suoi due amanti Paride e Menelao. Noi immagineremo dunque Elena, come ce la fa vedere Marina Cvetaeva, questa donna incantevole e incantatrice che, con occhi vuoti fra il sangue e le grida, guarda i tetti. E forse il cielo.
Segue un’enumerazione estremamente concreta delle rovine causate dalla guerra: quattro provincie dissanguate, cento secoli privati di speranza, sterilità di cento stirpi, le perle rubate ai cinque mari e così via. Si vuole contabilizzare e rendere percepibile l’indifferenza di Elena e il suo sguardo asettico: avviene cioè una reificazione di tutto ciò che la protagonista ha vissuto, di cui non rimane alcun sentimento, ma solo mancanze e distruzione.
Cvetaeva guarda ad Elena come se fosse piccolissima – un nulla – di fronte al disastro che ha causato, e la spoglia anche della veste sovraumana talvolta attribuitale.
Si utilizza il lessico della privazione (“privati”, “sottratta”, “sterilità”) per guardare la scena con la stessa aridità – ma non la stessa indifferenza – degli occhi di Elena, che rimane in disparte sola sui tetti.
- Da Silvia Ronchey, Elena di Troia: una, nessuna, centomila
- Da Scusate l’amore, a cura di Marilena Rea
- traduzione di Serena Vitale
Fonte immagine di copertina: Wikimedia Commons; Elena di Troia di Henry Hintermeister