Orhan Pamuk e il neo-ottomanismo in Il mio nome è rosso

Orhan Pamuk

 

Orhan Pamuk rappresenta, nel contesto della letteratura turca contemporanea, lo scrittore che ha fatto acquisire alla letteratura del suo Paese uno “status” internazionale, a cui sicuramente ha contribuito il Premio Nobel del 2006. Il successo internazionale di questo autore si deve pure alla traduzione dei suoi libri in circa quaranta lingue, il che ha avuto come conseguenza l’attribuzione di premi a livello internazionale, pure antecedenti al Nobel (in Italia il premio Grinzane Cavour 2002).

In Turchia, anche se Pamuk ha ricevuto premi e il valore della sua opera è stato riconosciuto, l’autore si è trovato al centro di diverse polemiche: il rifiuto del titolo di artista di Stato nel 1998 e le sue numerose dichiarazioni su diritti delle minoranze e libertà di espressione hanno continuato a suscitare in Turchia un controverso dibattito e forti reazioni politiche, culminate nel 2005 con l’imputazione, da cui è stato poi prosciolto nel gennaio 2006, di aver pubblicamente offeso l’ identità turca.
In effetti, per comprendere Orhan Pamuk e altri scrittori contemporanei, è necessario tenere in conto la particolare situazione politica e sociale della Turchia in seguito all’ennesimo colpo di Stato, nel 1980, successivo al golpe che aveva caratterizzato la decade degli anni Settanta, che in letteratura aveva avuto come espressione di questo evento tra i più traumatici della storia della Turchia il cosiddetto “romanzo del 12 marzo”. Il colpo di Stato del 1980 finisce per “rispecchiarsi” nelle opere di quella decade, portando gli intellettuali e vari scrittori a confrontarsi con il tema dell’identità e della memoria, in seguito anche a quella che era stata l’esperienza del kemalismo.

Il primo romanzo di Orhan Pamuk, pubblicato nel 1982, Cevdet Bey ve Oğulları, per esempio, ricco di elementi autobiografici (la famiglia di Pamuk era di fede kemalista), si presenta «[…] fedele nella forma narrativa alla tradizione realista ottocentesca, il romanzo narra la saga di una ricca famiglia stambuliota e con essa gli sconvolgimenti sociopolitici verificatisi nella società turca a partire dagli ultimi anni di regno di Abdülhamit II (1876-1909) fino alla vigilia del colpo di Stato militare del 1971 […]».

Saranno gli anni successivi a segnare una svolta nell’opera di Pamuk, che comincerà ad essere riconosciuta a livello internazionale, a partire da Beyaz Kale (1985; trad. it. Roccalba, 1992, poi Il castello bianco, 2006), ma il romanzo che segnerà la vera svolta sarà Kara Kitap (1990; trad. it. Il libro nero, 1996): qui Orhan Pamuk rivolge l’attenzione verso nuove forme creative e fa sue tematiche e tecniche espressive tipiche sia della tradizione letteraria orientale che di quella occidentale. Diventa tema centrale la scrittura, che si converte in un importante strumento di ricerca in quanto al tema dell’identità.
Sono molteplici le dimensioni identitarie, sociali e culturali, e la ricerca conduce ad intrecci narrativi che rielaborano questioni centrali della storia politica e culturale turca passata e presente, con lo scopo di evidenziare la pluralità dei piani interpretativi, le contrapposizioni esistenti tra il sé e l’altro, tradizione e modernità, laicità e religiosità, Oriente e Occidente, quest’ultima in particolare legata alla situazione della Turchia, perennemente “sospesa” tra Oriente ed Occidente. In ciò si può vedere anche un riflesso di come la letteratura, dinanzi alla nuova situazione politica determinata dal colpo di stato, vada alla ricerca di nuove forme espressive, che si traducono nell’esperienza del post-modernismo, per cui i romanzi finiscono per avere la funzione di mettere in discussione l’eredità del kemalismo, ma anche viene enfatizzata la pluralità di prospettive in opposizione alla visione univoca del passato.

Tale pluralità di prospettive è inoltre espressione di un’attitudine transnazionale, che vede, fra l’altro, l’adozione di modelli occidentali. L’attitudine transnazionale in Orhan Pamuk è legata all’obiettivo di rivolgersi ad un pubblico internazionale, che sia il più ampio possibile, ricollegandosi altresì al tema della memoria e al tema ottomano, particolarmente evidente in Benim Adım Kırmızı (1998; trad. it. Il mio nome è rosso, 2001). Precedente a questo romanzo, profondamente legato al tema della ricerca è Kara Kitap (1990; trad. it. Il libro nero, 1996), che apparentemente è una detective story (come è il caso di molta letteratura turca post-modernista). Il romanzo è in realtà una metafora della perdita individuale e collettiva, intesa oltre che come perdita di persone (nel romanzo il protagonista, Galip, si mette alla ricerca della moglie Rüya e del fratellastro di lei, Celal), di memoria, di identità, per cui se ne può fare una lettura allegorica. Kara Kitap sembra una metafora della Turchia che cerca di cancellare il suo passato; sono continui i richiami all’eredità islamica e ottomana, al sufismo e all’hurufismo, una dottrina esoterica che vede il mondo come un insieme di simboli che, partendo dalle lettere dell’alfabeto, devono essere decifrati: in questo senso, durante la sua ricerca, Galip sembra vedere dei segni, una ricerca che in realtà vuole condurre ad una riflessione sull’eterna questione dell’identità turca, sospesa tra Oriente ed Occidente. Sullo sfondo, Istanbul, con un ruolo molto importante, quello di città-simbolo di incontro e scontro, ma soprattutto di intreccio di culture; ad emergere è l’animo malinconico della città, strettamente legato alla memoria: siamo dinanzi all’hüzün, un sentimento collettivo di malinconia che affligge tutti gli abitanti di Istanbul, un sentimento che nasce dalla percezione della perdita del proprio passato imperiale, dalla nostalgia post-imperiale, continuamente alimentato dalla memoria della città. È una Istanbul che rappresenta un labirinto di ricordi, la memoria di tempi passati che esercita un’azione, al contempo positiva e negativa, di critica al processo di modernizzazione della società turca, per cui Orhan Pamuk cerca delle alternative e dei correttivi a tale modernizzazione, che secondo l’autore dovrebbe ispirarsi all’estetica di Istanbul.

Benim Adım Kırmızı- Il mio nome è rosso

Benim Adım Kırmızı si può definire come un libro complesso, polifonico, in cui i diversi capitoli sono narrati da differenti personaggi, espressione, a loro volta, di diverse prospettive e punti di vista. È altresì un romanzo nel quale ritorna il dualismo, la contrapposizione tra Oriente e Occidente, che qui viene simboleggiata dalle miniature. Viene ad essere evidente, in questa narrazione, il neo-ottomanismo letterario e il tema ottomano, che serve, attraverso il riferimento alle miniature, a portare avanti un discorso o meglio una riflessione sulla relazione tra Oriente e Occidente, ma anche sull’identità: rivolgere lo sguardo verso il passato significa recuperare un’eredità, cancellata dal kemalismo, un’azione, questa, volta ad affrontare la crisi identitaria del presente al fine di cercare dei correttivi. Da notare che, in questa che si presenta come una detective story, caratterizzata come ne Il libro nero da una ricerca, ma con una forma destrutturata data dalla molteplicità di prospettive e di punti di vista, è sempre presente la città di Istanbul: si potrebbe affermare che qui, ancor di più che ne Il libro nero, Istanbul è “una mini-enciclopedia di storia culturale”, simbolo di quel multiculturalismo, cosmopolitismo e multilinguismo andati persi con la modernizzazione, di cui si possono vedere tutte le contraddizioni e il fallimento.

Di conseguenza, emerge una forte nostalgia del passato, in una Istanbul del XVI secolo non realistica, ma allegorica, in cui si assiste ad una sorta di incontro- scontro tra culture, in un microcosmo all’interno del macrocosmo della città, rappresentato dal laboratorio di miniatura del Sultano, dove lavorano, agli ordini del Maestro Osman, artisti dotati di eccezionale talento.

Anche la miniatura, che impreziosisce le pagine dei libri commissionati dai sovrani, diventa luogo di incontro-scontro tra la cultura orientale e quella occidentale, moderna, di cui è rappresentante la città di Venezia e i suoi miniaturisti: sembra che così come il kemalismo aveva spazzato via la tradizione e con sé il passato, la città di Venezia “fagociti” il mondo ottomano, un mondo ormai al declino, che guarda al passato e al tramonto di tutta una civiltà con profonda nostalgia e malinconia. I libri miniati, così come coloro che li creano, sono custodi di quella storia e di un passato che, fondamentalmente, ormai non esiste più. Ecco che allora la struttura del romanzo di detective story si presta ancora al motivo della ricerca e del recupero di qualcosa che, in realtà, non c’è più.

Come si può leggere nella traduzione del libro edito da Einaudi, Il mio nome è rosso è «…Un romanzo d’ amore, una storia di intrighi e di misteri che conducono fino alle stanze segrete del palazzo del Sultano… Libro corale, carico di passione e di suspense, questo straordinario romanzo di Orhan Pamuk restituisce la ricchezza e la malinconia di un mondo al tramonto. Nel contrasto tra i due vecchi miniaturisti, Zio Effendi e Maestro Osman, Pamuk riassume una discussione che continua ancora oggi nel mondo islamico, diviso tra modernità e tradizione. Da una parte, l’insegnamento di Maestro Osman per il quale lo stile personale, in un artista, è un difetto, una stupida e insolente vanità. Dall’altra, chi come zio Effendi pensa che ad Allah appartengono l’Oriente e l’Occidente. Allah ci protegga dai desideri di colui che è puro e non si è mescolato…»

Fonte immagine articolo Orhan Pamuk e il neo-ottomanismo in Il mio nome è rosso:  Wikipedia

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