Poesie di Alessandro Manzoni, le 3 più belle (secondo noi)
Alessandro Manzoni (1785-1873) è stato uno scrittore, poeta e drammaturgo italiano, nonché senatore del Regno d’Italia. Con il suo celebre romanzo I promessi sposi, Manzoni gettò le basi per il romanzo moderno e patrocinò l’unità linguistica italiana. Passato dalla temperie neoclassica a quella romantica, Manzoni lasciò un segno indelebile anche nella poesia, con il suo pluralismo vocale.
Poesie di Alessandro Manzoni, e non solo: una piccola bio
Nato nell’aristocrazia illuminista milanese, si allontana inizialmente dalla fede per poi convertirsi a Parigi, dove entra nel movimento romantico. Tra il 1816 e il 1825 produce le sue opere principali, rinnovando vari generi letterari. Scrive le poesie degli Inni sacri e le Odi civili di ispirazione patriottica. Nel teatro compone le tragedie storiche Il Conte di Carmagnola e Adelchi. Ma il suo capolavoro è il romanzo storico I Promessi Sposi, massima espressione del suo stile mezzano e dell’alternanza tra storia e Storia. Figura cruciale per l’unificazione linguistica italiana, Manzoni riceve numerosi riconoscimenti prima della morte, avvenuta in un isolamento segnato da lutti e problemi di salute.
Ecco le 3 poesie più belle di Alessandro Manzoni!
Poesie di Alessandro Manzoni
Il cinque maggio
La storia di un uomo fragile e combattente allo stesso tempo, con la Grazia divina che salva da ogni male, sottolineando la profonda fede religiosa del poeta e la sua felicità nella vittoria spirituale di Napoleone che prima di morire si convertì al cristianesimo. Il cinque maggio, una tra le più famose poesie di Alessandro Manzoni, è un’ode scritta in onore della morte di Napoleone, morto il 5 maggio 1821. La poesia, invece, “forse non morrà” e resterà eterna come spesso accade.
Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro,
così percossa, attonita
la terra al nunzio sta,
muta pensando all’ultima
ora dell’uom fatale;
né sa quando una simile
orma di pie’ mortale
la sua cruenta polvere
a calpestar verrà.
Lui folgorante in solio
vide il mio genio e tacque;
quando, con vece assidua,
cadde, risorse e giacque,
di mille voci al sònito
mista la sua non ha:
vergin di servo encomio
e di codardo oltraggio,
sorge or commosso al sùbito
sparir di tanto raggio;
e scioglie all’urna un cantico
che forse non morrà.
Dall’Alpi alle Piramidi,
dal Manzanarre al Reno,
di quel securo il fulmine
tenea dietro al baleno;
scoppiò da Scilla al Tanai,
dall’uno all’altro mar.
Fu vera gloria? Ai posteri
l’ardua sentenza: nui
chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
del creator suo spirito
più vasta orma stampar.
La procellosa e trepida
gioia d’un gran disegno,
l’ansia d’un cor che indocile
serve, pensando al regno;
e il giunge, e tiene un premio
ch’era follia sperar;
tutto ei provò: la gloria
maggior dopo il periglio,
la fuga e la vittoria,
la reggia e il tristo esiglio;
due volte nella polvere,
due volte sull’altar.
Ei si nomò: due secoli,
l’un contro l’altro armato,
sommessi a lui si volsero,
come aspettando il fato;
ei fe’ silenzio, ed arbitro
s’assise in mezzo a lor.
E sparve, e i dì nell’ozio
chiuse in sì breve sponda,
segno d’immensa invidia
e di pietà profonda,
d’inestinguibil odio
e d’indomato amor.
Come sul capo al naufrago
l’onda s’avvolve e pesa,
l’onda su cui del misero,
alta pur dianzi e tesa,
scorrea la vista a scernere
prode remote invan;
tal su quell’alma il cumulo
delle memorie scese.
Oh quante volte ai posteri
narrar se stesso imprese,
e sull’eterne pagine
cadde la stanca man!
Oh quante volte, al tacito
morir d’un giorno inerte,
chinati i rai fulminei,
le braccia al sen conserte,
stette, e dei dì che furono
l’assalse il sovvenir!
E ripensò le mobili
tende, e i percossi valli,
e il lampo de’ manipoli,
e l’onda dei cavalli,
e il concitato imperio
e il celere ubbidir.
Ahi! forse a tanto strazio
cadde lo spirto anelo,
e disperò; ma valida
venne una man dal cielo,
e in più spirabil aere
pietosa il trasportò;
e l’avviò, pei floridi
sentier della speranza,
ai campi eterni, al premio
che i desideri avanza,
dov’è silenzio e tenebre
la gloria che passò.
Bella Immortal! benefica
Fede ai trionfi avvezza!
Scrivi ancor questo, allegrati;
ché più superba altezza
al disonor del Gòlgota
giammai non si chinò.
Tu dalle stanche ceneri
sperdi ogni ria parola:
il Dio che atterra e suscita,
che affanna e che consola,
sulla deserta coltrice
accanto a lui posò.
Autoritratto
Questa insolita descrizione di sé stesso potrebbe sembrare una poesia di Pirandello, ma in realtà è ancora una volta una sapiente riflessione di Manzoni sulla percezione umana. Autoritratto, anche questa tra le meglio riuscite poesie di Alessandro Manzoni, parla di quanto possa cambiare la visione di sé stessi, se guardata da punti di vista diversi. Gli altri diranno al poeta chi egli sia, facendo intendere che spesso non si ha l’esatta percezione di quello che si è.
Capel bruno: alta fronte: occhio loquace:
Naso non grande e non soverchio umile:
Tonda la gota e di color vivace:
Stretto labbro e vermiglio: e bocca esile:
Lingua or spedita or tarda, e non mai vile,
Che il ver favella apertamente, o tace.
Giovin d’anni e di senno; non audace:
Duro di modi, ma di cor gentile.
La gloria amo e le selve e il biondo iddio:
Spregio, non odio mai: m’attristo spesso:
Buono al buon, buono al tristo, a me sol rio.
A l’ira presto, e più presto al perdono:
Poco noto ad altrui, poco a me stesso:
Gli uomini e gli anni mi diran chi sono.
Alla Musa
Alla Musa, una delle poesie più belle di Alessandro Manzoni, è un’invocazione alla Musa, affinché ella sempre indichi la strada giusta, originale e gloriosa al poeta. Sono menzionati e allusi svariati poeti italiani come esempio di grandezza poetica: Dante, Petrarca (che visse a Valchiusa), Esiodo (che visse ad Ascre), Tasso (originario di Orobbia), Omero (che visse a Smirne) e poi Teocrito e Orazio (che vissero rispettivamente a Siracusa e a Venosa) e ancora Alfieri e Parini.
Novo intatto sentier segnami, o Musa,
Onde non stia tua fiamma in me sepolta.
E forse a somma gloria ogni via chiusa,
Che ancor non sia d’altri vestigi folta?
Dante ha la tromba, e il cigno di Valchiusa
La dolce lira; e dietro han turba molta.
Flora ad Ascre agguagliosse; e Orobbia incolta
Emulò Smirna, e vinse Siracusa.
Primo signor de l’italo coturno,
Te vanta il secol nostro, e te cui dico
Venosa il plettro, e chi il flagello audace?
Clio, che tratti la tromba e il plettro eburno,
Deh! fa che, s’io cadrò sul calle ascreo,
Dicasi almen: su l’orma propria ei giace.
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