Poesie di Kabir: 3 da scoprire

Poesie di Kabir: 3 da scoprire

Kabir (o Kabīr) è stato un mistico e poeta indiano che visse tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo nei pressi di Varanasi. Le informazioni sulla sua vita sono avvolte nel mistero e intrecciate con il mito. Secondo la tradizione musulmana, Kabir era un trovatello allevato da un musulmano, secondo la leggenda hindū invece egli sarebbe nato miracolosamente da una brahmana vergine. Il suo credo religioso resta un’altra incognita ma è ancora oggi, egualmente venerato da hindū e musulmani. Nato e cresciuto in un periodo di forte sincretismo religioso, Kabir nelle sue poesie affronta il tema dell’universalismo spirituale e l’importanza del rapporto diretto tra Dio e l’uomo, senza la mediazione di testi sacri e sacerdoti. Di seguito 3 poesie di Kabir da scoprire per conoscere meglio la filosofia del poeta.

Poesie di Kabir

Stai cercando me?

Stai cercando me? Sono nella sedia accanto.
La mia spalla è contro la tua.
Non mi troverai negli stupa,
o nelle sale dei templi indiani,
non nelle sinagoghe, o nelle cattedrali:
non nelle masse, non nei kirtan,
non nelle gambe che si avvolgono
intorno al tuo collo,
non nel non mangiare nient’altro
che verdure.
Quando mi cercherai veramente, mi vedrai
subito,
mi troverai nella più piccola casa del tempo.
Kabīr dice: Studente, dimmi, che cos’è Dio?
È il respiro dentro il respiro.

Il poeta cita i principali luoghi di culto della religione indiana e quella musulmana nel tentativo di dimostrare il loro ruolo marginale. Spesso le istituzioni religiose vengono intese come il centro della spiritualità, come se quei luoghi fossero un’estensione di Dio. Per Kabir Dio in realtà coincide con la nostra stessa forma. Non è identificabile nei luoghi di culto e nelle tradizioni perché Dio è da ritrovare nella quotidianità e nel rapporto con gli altri. Il poeta ritiene inutile definirsi fedeli se non si intraprende un percorso interiore, limitandosi a seguire solo i dettami del proprio credo (canti devozionali, vegetarianismo). In questo modo l’uomo perde tempo a cercare fuori quel che è già dentro. Nell’ultimo verso Kabir rivela la sua visione di Dio. Esso è inteso come prāṇa ovvero quel soffio vitale che muove tutti noi, che garantisce la vita e che coincide con l’immagine di Dio stesso: il respiro dentro il respiro.

Difficoltà

Ti prego, amico, dimmi che devo fare con questo mondo
che continuo ad estrarre da me stesso!

Ho rinunziato alle vesti lussuose e mi sono comprato un saio
ma un giorno mi sono accorto che il tessuto era di buona fattura.

Così ho comprato un saccaccio di iuta, ma ancora
lo indosso con ricercatezza sulla spalla sinistra.

Ho smesso di essere un elefante sensuale
e ora scopro d’essere pieno di rabbia.

Alla fine mi sono liberato dalla rabbia, ma ora m’accorgo
di essere avido da mane a sera.

Ho lavorato duro per dissolvere l’avidità
ed ora sono orgoglioso di me stesso.

Quando la mente vuole spezzare il suo legame col mondo
è ancora attaccata ad una cosa.

Dice Kabir: Ascolta, amico,
in pochissimi trovano il sentiero!

Qui viene affrontato il tema del paradosso spirituale, raccontando le difficoltà che si incontrano lungo il cammino. Kabir spiega quanto sia complesso portare avanti la propria ricerca interiore dal momento in cui si è costantemente minacciati dall’ego, in ogni sua possibile forma (saio, umiltà, orgoglio). È attraverso la mente che l’uomo crea la propria realtà. Se non si riconosce la sua natura illusoria il percorso spirituale sarà costantemente ostacolato. È la mente stessa l’illusione ultima e fin quando sarà essa a cercare la liberazione non si faranno passi avanti. Senza la giusta consapevolezza allora anche le scelte più estreme come l’ascetismo e la rinuncia non porteranno benefici.

Tra i poli della coscienza

Fra i poli del conscio e dell’inconscio
la mente ha costruito un’altalena,
con tutti gli esseri, tutti
i mondi ivi sospesi.
L’altalena dondola incessantemente
con milioni di esseri, il sole e la luna nei loro giri.
Si consumano milioni di epoche,
ma l’altalena continua.
Tutti dondolano! Il cielo,
la terra, l’aria e l’acqua,
e il Signore stesso prende forma.
Tale visione
ha reso Kabir un servo.

In questa poesia Kabir paragona la mente ad un’altalena che oscilla tra i piani del conscio e dell’inconscio. Questo movimento perpetuo caratterizza tutto il piano dell’esistenza, al cui interno tutto è connesso (uomini, astri, divinità). La consapevolezza di questo flusso incessante porta Kabir ad assumere una posizione di umile sottomissione nei confronti dell’ordine cosmico, riconoscendosi come una parte infinitesimale di quest’ultimo.

 Perché leggere le poesie di Kabir

La lingua scelta da Kabir è una varietà di hindi medievale, semplice e compresa da tutti. Egli inseriva parole sanscrite, termini arabo-persiani ed espressioni dialettali nelle sue opere in modo tale da promuovere l’inclusività e consegnare un messaggio universale, che potesse andare al di là delle barriere create dalle religioni. Kabir diventa la voce del popolo, le sue origini umili lo avvicinano agli ultimi ed emarginati. Critica senza paura i sacerdoti hindu e islamici e tutto il sistema castale, facendosi portavoce di valori come l’uguaglianza e l’unione del popolo. Le sue poesie sono vive ora più che mai: in India vengono ancora studiate, cantate e tramandate da studenti e fedeli.

Fonte immagine: Wikimedia Commons

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