I poeti pessimisti sono quelli che durante gli anni delle superiori più facevano storcere il naso quando li si doveva studiare; a parte questo piccolo dejavù che tutti ricorderanno, proprio questi poeti, così profondi e terribilmente veri, estremamente tormentati, talvolta arrabbiati con il mondo intero, sono quelli che più affascinano e dai quali si possono imparare nozioni di notevole importanza.
Poeti pessimisti: da Leopardi a Svevo
Il Pessimismo è una fase importante e ben radicata (non solo nell’animo dei poeti che la condivisero) in Italia, come nel resto del mondo. Un periodo piuttosto lungo, i cui temi, oltre alla malinconia vera e propria, sono tanti altri, collegati, ad esempio, alla natura, all’esistenza, al concetto di persona e tanti altri ancora.
A costruire questa immagine disincantata del mondo e a porre le basi per l’analisi della cosiddetta “crisi esistenziale” aveva contribuito il metodo psicoanalitico di Sigmund Freud, che gli intellettuali del tempo utilizzarono come diagnosi, e che assunse i contorni di un elemento individuale.
In Italia, tra i poeti pessimisti più celebri menzioniamo sicuramente Giacomo Leopardi, pessimista per eccellenza, che fece della propria poetica un “corpus” basato su basi negative e malinconicamente intrise di consapevolezza.
Dal Pessimismo Storico al Pessimismo Cosmico, Leopardi basò la propria visione del mondo sul carattere “negativo” della natura, interpretata come maligna, colpevole dei mali dell’uomo e quindi della società.
L’uomo in questa visione deve essere distaccato, senza illudersi che qualcosa possa cambiare; trovare una perfetta sincronia e vivere in pace con se stessi potrebbe essere l’unica soluzione.
Fortemente demoralizzati e scoraggiati, i poeti pessimisti prendono le distanze dalla quotidianità e dalla visione disincantata del mondo, chiudendosi in se stessi.
Ricordiamo che il pessimismo filosofico di Leopardi affonda le basi nel Materialismo e nel Sensismo del Settecento e deriva direttamente dal razionalismo propugnato dall’Illuminismo, dall’atomismo greco e dal pessimismo mostrato da alcuni autori antichi, come Omero e Lucrezio, con qualche influsso del Romanticismo.
Nell’800, con la nascita del Romanticismo e del Neoclassicismo, torna tra i grandi temi della poesia italiana quello della Natura, non sempre vista in modo positivo. C’è infatti chi la colpevolizzava, e chi invece decantandola (non è il caso dei poeti pessimisti) ne traeva beneficio; studiando il rapporto con la natura, che circonda l’uomo, è possibile ricostruire il pensiero dei vari autori.
La natura, intesa come qualcosa dalla quale non ci si può difendere, emblema di sofferenza e tristezza, è come una fiumana che coinvolge tutti, mutando e causando effetti diversi.
Il concetto di natura interpretata come “fiumana” riguarda un altro poeta pessimista, Giovanni Verga.
Il pessimismo di Verga si rifà alla visione del progresso dell’Unità d’Italia, inteso non come uno sviluppo concreto, ma in quanto disfacimento delle classi sociali già penalizzate. Un processo che secondo il poeta coinvolge tutti, proprio perché derivante da qualcosa che muta nel tempo, contraddistinto da diverse fasi evolutive.
Il miglioramento non è inteso come forma di crescita, ma è associato ad una insoddisfazione verso se stessi, nei confronti di ciò che si possiede, e che diventa insufficiente, inadatto, e soprattutto spinge l’uomo, logorato da tale condizione, a comportarsi da egoista.
Una tendenza di tipo morale che si rifà al pensiero di Schopenhauer, secondo il quale la volontà si contraddistingue per la presenza del desiderio (in questo caso la voglia di ottenere qualcosa, anche idealmente) che coincide con la mancanza dell’oggetto desiderato, e quindi con il dolore.
La poesia come unica “soluzione” alla sofferenza
Un pensiero che avvicina tutti i poeti pessimisti, italiani e non, accomunati da una visione d’insieme condivisa, ed estremamente tragica, in cui tutto confluisce nel benessere dell’aldilà e quindi nel pensiero che la morte sia l’unico vero rimedio alla sofferenza.
Questi aspetti si ritrovano in una cornice di tipo comunicativa e anche psicologica, come accennavamo prima, all’interno della quale s’inserisce un altro rinomato e conosciuto poeta pessimista, Italo Svevo.
Un pessimismo spesso ignorato o non del tutto chiaro, quello che emerge nei romanzi di Svevo, nel corso del quale i protagonisti dei vari romanzi lottano contro se stessi, in virtù di una indole travagliata, storpiata o deformata. Un pensiero che si collega non solo alla filosofia di Schopenhauer, ma anche al pensiero leopardiano, secondo il quale, come dicevamo in precedenza, l’uomo deve affermare se stesso, contro gli altri, e procedere di pari passo con l’infelicità che gradualmente coinvolgerà tutta l’umanità (Pessimismo Cosmico).
Dunque, in questi poeti, autori e filosofi, si può notare una visione dell’esistenza che non offre alcuna possibilità d’esser felici. Ovviamente i poeti pessimisti succedutesi nel corso del tempo sono tantissimi, ma citarli tutti insieme sarebbe complicato.
Da Leopardi a Svevo, ma come non ricordare anche Ungaretti e Montale, spinti dal contesto storico nel quale vivevano. Tormentati da una costante paura, dall’attesa del nulla, dal senso profondo dell’essere inadatti.
Detto ciò, è chiaro che il compito del poeta, e in particolare nella poesia, anche pessimista, sia quello di suscitare emozioni che permettano di andare oltre, in un’altra dimensione, dove magari trovare piacere (o illudersi di provarlo).
I poeti pessimisti, secondo diversi studi condotti da letterati e filologi, ma anche filosofi e storici, comunicavano qualcosa di terribilmente latente, usando la “metafora” della sofferenza.
Parlare del mondo significava parlare di sé, in un continuo di emozioni negative, suggestioni, punti di vista, e caratteristiche comportamentali.
Che sia letteratura, arte o filosofia, i poeti pessimisti che si potrebbero annoverare sono tantissimi, ciascuno con il proprio cruccio, in un’esistenza tormentata e in balia di pensieri negativi che in ogni caso portano a qualcosa e sono spiegabili in un determinato modo.
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