“Tutto è secco fuori del nostro cuore”, scriveva Giacomo Leopardi in una lettera al fratello.
È così, con questo epigrafico verso che sancisce l’unione, nell’uomo, di sentimento e verità, che penso al principe Myškin, l'”idiota” dostoevskiano.
Sia nella scrittura, sia nell’idea, l’autore fu preda di vari ripensamenti, incalzato anche, come spesso accadeva, dal bisogno economico e dalla fretta degli editori. La stessa ricezione dell’opera generò, più che perplessità, il silenzio eloquente della critica.
Nell’inverno di una Russia frastornata dal progresso, dalle battaglie economiche, dal cieco asservimento alla violenza, brilla di luce propria – e non potrebbe essere altrimenti, trattandosi di una novello Cristo – il personaggio più sofferto di tutti.
Ci si chiede, leggendo l’Idiota, come una figura cristologica possa sopravvivere nella turba di un secolo marcio e corrotto. Se il Dio del Cristianesimo è morto sotto il colpo del Male, se il suo Verbo è stato mistificato e il suo corpo mercificato, se il suo atto di carità è stato convertito nel segno della demagogia, è possibile rinvenire una correlazione con l’idea religiosa di Dostoevskij.
La purezza delle origini, il mito edenico, il Paradiso incorrotto, che nel romanzo assumono i connotati di una clinica bianca in una bianca Svizzera, sono sovvertiti dal mondo a tinte fosche di Mosca, di San Pietroburgo e delle campagne circostanti. Non c’è albero che tenga – eppure il Principe ama gli alberi, e spesso ne fa professione – di fronte al dolore metafisico, di cui tutti i personaggi, coscienti o meno, sembrano soffrire.
Il principe Myškin è specchio delle coscienze altrui, e quando qualcuno vi si riflette, scopre la propria abiezione, e la rifiuta, la nega, o, talvolta, la accoglie. Il Principe mette l’uomo di fronte al nocciolo duro della coscienza, la coscienza ipertrofica, che spesso sottende e occulta, cela e disvela. Proiettato nelle debolezze dell’altro, assume su di sé, oltre a un infantile e tenero stupor mundi, il dolore dell’altro, e lo fa senza riserve, dalla prima all’ultima pagina.
È una compassione schopenhaueriana a muoverlo. Estirpare la radice del dolore, portarla alla luce, significa inglobarla, penetrarla, attraversarla.
Come il Dio cristiano, spesso la sua opera – la sua parola, il suo Verbo – sarà travisata, giudicata, incompresa, degradata nell’orticello retorico dell’idiozia, della dabbenaggine.
La bellezza salvifica del Principe Myškin ne “L’idiota” di F. Dostoevskij
Nella mappa dei sentimenti tracciata, poco importa chi il Principe ami, e se ami una donna rispetto ad un’altra, perché l’amore, nel suo essere, si esprime sotto ogni forma, e per ogni forma ha in sé un tipo di amore.
È scontato immaginare che questa sia una figura ideale, poiché salvifica, e se “la bellezza salverà il mondo”, è pur vero che il Principe non riesce a salvare, e a salvarsi, e questa chiusa amara, gravissima, rivela l’incosistenza dell’illusione, che io tuttavia giudico, e ostinatamente, unico motore del mondo, finché in noi, come il Principe spiega, sia vivo “il senso della felicità”.
Nella sconfitta della purezza, l’illusione di essa ci mantiene in vita, mantiene in vita il nostro bisogno di accogliere questo romanzo, di commuoverci dell’impossibilità e tendere comunque ad afferrarla.
Del resto, Leopardi sapeva, che se tutto è secco fuori del nostro cuore, è con indulgenza, e pietà, e assoluta vicinanza all’umanità tutta, che scriverà:
non val cosa nessuna
i moti tuoi
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