Scrittori con disturbi mentali: 3 esempi in letteratura

Scrittori affetti da disturbi mentali

«Ti svelo un segreto, tutti i migliori sono pazzi!» diceva il Cappellaio Matto ad Alice. Da tempo non si parla più di pazzia, ma di diversi tipi di malattie mentali (depressione, ansia, disturbo ossessivo-compulsivo). Sebbene sia sbagliato “romanticizzare” i disturbi mentali, è noto che esista una correlazione tra psicopatologia e attività artistica. Scrivere è spesso un mezzo per esternare un malessere interiore troppo complesso da esprimere a parole. Secondo la psicanalista britannica H. Segal, l’opera artistica rappresenta il tentativo di ricreare tramite la scrittura una serenità interiore perduta. Di seguito analizzeremo tre casi di scrittori affetti da disturbi mentali che hanno usato l’arte come valvola di sfogo, lasciando una preziosa testimonianza di cosa volesse dire combattere con la propria salute mentale quando la consapevolezza su questi temi era molto limitata.

Virginia Woolf: la depressione tra gli scrittori con disturbi mentali 

Tra le più importanti figure letterarie del XX secolo, fin dai primi anni della sua adolescenza Virginia Woolf ha sofferto di gravi episodi depressivi e psicosi, oggi ipoteticamente riconducibili a un disturbo bipolare. La sua esistenza è stata segnata da traumi profondi. Provata da lutti, violenze sessuali e in ultimo la traumatica esperienza dalla guerra, tenta più volte di togliersi la vita. Il 28 marzo del 1941, riempie le tasche con dei sassi e si lascia affogare nel fiume Ouse poco distante da casa sua. Al marito, Leonard Woolf, scrive una lettera in cui spiegava: «Sono certa di stare impazzendo di nuovo. Sento che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti».

Le sue esperienze di vita hanno influenzato i temi delle sue opere e la psicologia dei protagonisti. La Woolf si rivede in loro: afflitti dalla depressione, scettici e tormentati da idee suicide. Tutto ciò che accade nelle opere di Virginia Woolf è estremamente interiorizzato poiché il suo intento è quello di dare spazio alla dimensione interiore in tutta la sua complessità. La Woolf ha contribuito a sviluppare una delle tecniche più innovative del XX secolo, il flusso di coscienza, nel tentativo di mettere nero su bianco il turbinio incessante di pensieri e paranoie che caratterizzavano i protagonisti dei suoi libri. Tramite un linguaggio raffinato, ricco di metafore e similitudini, descrive il flusso continuo di emozioni e impressioni che caratterizza l’animo umano. E, in questo flusso ininterrotto di pensieri e percezioni emergono, a tratti, momenti di illuminazione. La Woolf li definisce moments of being, attimi di estrema lucidità che permettono ai personaggi di prendere coscienza della loro (complessa) condizione.

Sebbene alcuni dei medici che la ebbero in cura le avessero sconsigliato di dedicarsi alla scrittura, preoccupati del fatto che ciò potesse “innescarle” delle crisi ancora più forti, è innegabile notare che la scrittura sia stata un’ancora di salvezza per Virginia Woolf fino a poco prima della sua morte. Riversando nelle sue opere tutto il dolore e la sofferenza che si portava dentro, la scrittrice ci ha lasciato in eredità un corpus letterario di estremo valore.  

Cesare Pavese e il “vizio assurdo”

Scrittore e poeta tra i più influenti del 900, Cesare Pavese si toglie la vita nel pomeriggio del 27 agosto 1950. A soli quarantadue anni soccombe a quello che egli stesso definiva un “vizio assurdo”, ovvero la costante necessità che sentiva di doversi sottrarre alla vita. Nonostante la condizione mentale dell’autore non sia mai stata valutata sotto un punto di vista medico, è possibile notare una profonda sofferenza interiore che lo ha accompagnato e inibito per tutta la vita. La sua esistenza è stata caratterizzata da morte e solitudine, a causa della precoce scomparsa del padre, problemi familiari e un rapporto molto travagliato con le donne. Pavese si sentiva alienato dalla vita e dalle altre persone fino al punto di definire l’esistenza come “un mestiere”. Quel “mestiere di vivere”, che lui non è mai riuscito ad apprendere nonostante i suoi sforzi, viene sovrastato dall’incontenibile “mestiere di scrivere”. La scrittura per Pavese si sostituisce all’esistenza. Attraverso la penna egli da un senso alla sua condizione. 

In particolare, nel suo ultimo romanzo La luna e i falò, è possibile notare come la scrittura facesse da specchio al suo tormento interiore. Il simbolismo celato dietro la freddezza isolante della luna e l’intensità delle fiamme esprime la dualità del suo animo. C’è una contrapposizione tra l’isolamento rappresentato dalla luna e la passione alimentata dalle fiamme. Un animo “spaccato” tra due estremi, la voglia di vivere, di “ardere” e l’incapacità nel riuscire a farlo.

Nel suo diario, Cesare Pavese, il 18 agosto registra le sue sensazioni per l’ultima volta. Sono poche frasi ma totalmente esplicative: «Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più». L’urgenza di scrivere non lo alimenta più.  Come spesso succede quando si tratta di scrittori con disturbi mentali, la scrittura è stata per Pavese un appiglio, ma solo per un periodo limitato di tempo.

Sylvia Plath: disturbi mentali e la scrittura come terapia

Poetessa e scrittrice statunitense di notevole successo, ha pubblicato un solo romanzo semi-autobiografico che testimonia la sua lotta contro i disturbi mentali. Dedita alla scrittura sin da quando era una bambina, per Sylvia Plath scrivere era contemporaneamente una salvezza e una condanna. Nei suoi diari dice «Scrivo perché non so cosa fare di me stessa». Cresciuta in un ambiente accademico molto competitivo, era molto ambiziosa e ossessionata dal successo. Il suo bisogno di sentirsi apprezzata sotto il punto di vista letterario non ha fatto altro che deteriorare ulteriormente il suo stato mentale.    

Profondamente segnata dalla scomparsa precoce del padre, definita come “la fine dell’infanzia e di ogni felicità”, Sylvia Plath soffrì per tutta la sua vita di una grave forma di depressione e probabile disturbo bipolare. In un contesto in cui la salute mentale era ancora uno stigma, si è ritrovata spesso sola a dover fronteggiare i suoi demoni interiori. Le sue richieste di aiuto sono sfociate spesso in tentativi di suicidio falliti, fino al terribile epilogo dell’11 febbraio 1963. Dopo aver preparato la colazione ai suoi figli ed aver spalancato la finestra della loro stanza, sigilla porte e finestre della cucina e inserisce la testa nel forno a gas.

Soltanto un mese prima della sua morte pubblica il suo primo e ultimo romanzo, La campana di vetro, con lo pseudonimo di Victoria Lucas. Questa scelta aveva lo scopo di tutelare le persone e i fatti reali raccontati nel libro. Esther, la protagonista del romanzo, è così simile a Sylvia Plath al punto di risultare praticamente il suo alter-ego. L’opera è scritto in prima persona, usando un linguaggio diretto e immediato che ricorda il tono dei diari personali della stessa autrice. Il tema della morte è ricorrente, quasi ossessivo, e ci fa entrare subito nel meccanismo di pensiero dell’autrice. Esther sente di vivere costantemente intrappolata sotto una “campana di vetro”. Non c’è modo di liberarsene, non c’è modo di respirare senza sentirsi soffocare. Come la Plath nel 1953, anche Esther ottiene uno stage presso una rivista di moda. E, sempre come lei, la protagonista ne uscirà profondamente segnata arrivando a compiere un primo tentativo di suicidio. Dopo la morte di Sylvia Plath, il romanzo ha assunto un valore ancora più profondo. La campana di vetro offre una testimonianza dei conflitti interiori della scrittrice e mostra cosa significasse, per gli scrittori con disturbi mentali, soffrire di depressione negli anni ’50, quando la salute mentale era ancora un tabù.  

Fonte immagine: Wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Virginia_Woolf#/media/File:George_Charles_Beresford_-_Virginia_Woolf_in_1902_-_Restoration.jpg)

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