Selva oscura nella Divina Commedia: spiegazione del primo canto

selva oscura nella divina commedia: spiegazione

«Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!                                     

Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.                               

Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.»

Selva Oscura: il Simbolo del Peccato nell’Inferno di Dante

Questi versi immortali aprono il primo canto dell’Inferno, il proemio della Divina Commedia di Dante Alighieri. Anche chi non è esperto di letteratura riconosce questi endecasillabi, entrati a far parte del nostro patrimonio culturale. Dante non è solo il padre della lingua italiana, ma anche una mente geniale e innovativa, capace di creare un’allegoria universale del cammino dell’uomo verso la redenzione.

L’incipit dell’Inferno: un’analisi ravvicinata della selva oscura

L’allegoria universale e personale: l’exemplum dantesco

Per comprendere appieno il significato simbolico della selva oscura, è fondamentale analizzare attentamente i versi danteschi. La Divina Commedia non è solo un’allegoria personale, un continuo riferimento alla vita del poeta, ma anche universale: l’intera opera indica al lettore la via per abbandonare il peccato. Dante utilizza subito la prima persona: «mi trovai», «ch’i’ vi trovai», «ch’i’ v’ho scorte», «com’i’ v’intrai», «che la verace via abbandonai». Nel Medioevo, non era comune che un autore si riferisse direttamente a sé stesso, a meno che non volesse rappresentare la collettività, un esempio universale. Per questo motivo, la Commedia assume il valore di exemplum, un modello di comportamento. Questa tecnica si ispira alle Confessioni di Sant’Agostino, in cui l’autore si rivolge a Dio descrivendo gli eventi cruciali della sua vita, creando una vera e propria confessione.

L’incipit conferisce al poema un’atmosfera onirica, quasi di trance. La selva oscura simboleggia immediatamente una profonda confusione interiore: «la diritta via era smarrita». Il genio di Dante risiede non solo nella capacità di creare un’atmosfera fantastica e sognante, ma anche nei continui riferimenti alla sua vita e al contesto italiano dell’epoca. Il cammino di purificazione avviene «nel mezzo del cammin di nostra vita», cioè a metà dell’esistenza umana. Dante fornisce anche un preciso riferimento temporale: si trova a metà della sua vita, circa 35 anni, nell’anno 1300. La selva sembra situata in una valle desertica, forse vicino a Gerusalemme, ma la sua collocazione precisa rimane incerta. Dante si smarrisce in una notte di plenilunio, tra il giovedì e il venerdì santo, come accenna nel canto XX: «alla luce lunare». L’ispirazione di Dante è multiforme: il cammino come allegoria della vita è frequente nella religione, come afferma San Paolo: «camminiamo nella via della fede». Anche nel Convivio, Dante parla del rischio, per l’animo umano, di smarrire la via del bene. I versi della Commedia si riferiscono proprio a questo: Dante si ritrova nel sentiero più oscuro, freddo e infido: quello del peccato. Egli stesso non sa come ci sia finito: «Io non so ben ridir com’i’ v’intrai, tant’era pien di sonno». Il sonno rappresenta la perdizione, lo smarrimento. Dante scrive la Commedia in un periodo di profonda crisi personale (la morte di Beatrice, l’esilio causato dagli scontrir tra Guelfi Bianchi e Neri) ma anche generale. Il suo scopo è anche quello di criticare i protagonisti del disordine morale che l’Italia del Trecento stava vivendo: «ché la diritta via era smarrita»

Il contesto storico e le fonti di ispirazione

Nel Medioevo, l’immagine della selva oscura era ricorrente, ma è importante citare una delle principali fonti di ispirazione di Dante: l’abate e teologo Gioacchino da Fiore. Nel XII secolo, Gioacchino scrisse il De Glora Paradisi (Visio Admirandae Historiae), un’opera suddivisa in Inferno, Purgatorio e Paradiso. Tutta la Commedia di Dante è permeata dalla simbologia, dalla selva oscura alle fiere, e dalla tensione profetica della Visio di Gioacchino. La concezione storico-teologica di entrambe le opere è strettamente legata all’idea di purificazione dell’animo attraverso il distacco dai beni terreni. Nell’opera di Gioacchino, un religioso si perde in una selva oscura e il suo cammino è ostacolato da linci, leoni e serpenti. Entrambi gli autori, quindi, trattano il tema della redenzione: un viaggio arduo ma necessario, che richiede impegno e umiltà, e che non a caso inizia dall’Inferno. Dante cita Gioacchino nel canto XII del Paradiso, tra gli spiriti sapienti nel cielo del Sole: «il calavrese abate Giovacchino di spirito profetico dotato», riconoscendo il suo debito culturale.

«Un religioso non oscuro descrisse ciò che una volta vide in un momento di estasi. Trasportato da un eccesso d’animo egli camminava per luoghi senza vie, non aveva sotto gli occhi, innanzi a sé, campi coltivati, non luoghi praticabili.»
«Stritolato dai denti delle fiere è costretto a deporre lo sciagurato peso del corpo. Nell’istante medesimo in cui è sciolto dai vincoli del corpo, vede una fiumana fumante di fuoco e di bollente zolfo, sormontata da un ponte stretto nel mezzo, pel quale passano a malincuore le anime dei disgraziati, perché, nel percorrere l’angusta via, venendo giù a precipizio dall’acuta sommità del ponte, sono inghiottiti dal fiume.»
«Or dunque, passando lì il nostro uomo in spirito vide le schiere dei beati tripartite per gradi.»
Gioacchino da Fiore in  De Glora Paradisi (Visio Admirandae Historiae)

Selva oscura

Le allegorie presenti nei primi versi del Canto I sono quindi lo sbandamento morale (selva oscura), la perdita della virtù (diritta via) e il torpore spirituale (sonno e verace via). Smarrito nella selva, Dante scorge un «colle» e un «dilettoso monte», che rappresentano la beatitudine terrena, le quattro virtù cardinali: fortezza, temperanza, prudenza e giustizia. Ai piedi del colle, vede i primi raggi del sole, simbolo di speranza e rinascita, che lo spingono a tentare la scalata. Il suo cammino, però, è ostacolato dalle tre fiere: una lonza (lussuria), un leone (superbia) e una lupa (cupidigia). Spaventato, Dante viene soccorso dal poeta Virgilio, allegoria della ragione ritrovata, che gli indica il percorso da seguire e lo scopo del viaggio. Nel Paradiso, Dante sarà guidato da Beatrice, simbolo della teologia.

La selva oscura nella Divina Commedia: simbolo del peccato e della corruzione

Gli scritti di Dante, pur essendo radicati nel suo tempo, appaiono spesso sorprendentemente attuali. Tornando alla Commedia, il poeta si trova ad affrontare un percorso complesso: l’intrico della selva oscura, il sonno che lo opprime, il colle irraggiungibile, le fiere che gli sbarrano la strada. Quest’ultime incarnano tre dei sette vizi capitali: l’uomo deve superare lussuria, superbia e avarizia per liberarsi dal peccato spirituale e morale, sia interiore (sonno) che esteriore (selva). Il buio della selva simboleggia la perdita della ragione, che porta l’uomo a peccare, incapace di scegliere la retta via, quella del bene, che per Dante coincide con la via di Dio. La selva oscura è selvaggia e amara quasi quanto la morte («Tant’è amara che poco è più morte»): rappresenta uno stato di angoscia profonda, una situazione difficile da cui uscire sia fisicamente che psicologicamente. L’oscurità è simbolo del male, mentre il bosco o la foresta rappresentano il pericolo e la perdizione, come vediamo ancora oggi nei film horror o thriller. La selva, quindi, non è solo il peccato individuale, ma anche quello della società del tempo di Dante. Il poeta invita a prendere coscienza della condizione negativa in cui versa l’Italia del Trecento, un periodo segnato da una profonda corruzione. La selva oscura viene paragonata alla corruzione della Chiesa, al malgoverno, alla decadenza sociale e alla perdita dei princìpi morali. L’obiettivo di Dante è la redenzione personale e collettiva, un invito a intraprendere il cammino di purificazione, perché la via è solo smarrita, non perduta per sempre.

Dante ha creato un’opera di portata storica, affrontando le complesse questioni politiche e sociali del suo tempo attraverso un racconto allegorico e fantastico. Per comprendere appieno i continui riferimenti del poeta, è necessario considerare il contesto storico e il pensiero di Dante sulla situazione italiana del 1300. Dante sosteneva l’indipendenza del potere imperiale da quello papale: imperatore e papa avrebbero dovuto agire separatamente, poiché i loro fini erano diversi: la felicità terrena per il primo (simboleggiata dal Paradiso Terrestre) e quella eterna per il secondo (simboleggiata dal Paradiso Celeste). La separazione dei compiti riguardava la giurisdizione temporale, volta all’applicazione delle leggi e alla garanzia di pace e giustizia, e quella spirituale, dedicata alla diffusione e all’interpretazione dei testi sacri. Secondo Dante, le leggi non venivano rispettate a causa dell’ingerenza del pontefice, che pretendeva di governare. La commistione dei due poteri aveva generato una dilagante corruzione nella Chiesa. Nella sua opera Monarchia, Dante critica aspramente l’istituto ecclesiastico, accusando i papi di impedire agli imperatori di esercitare il loro potere, causando disordine e anarchia in Italia. La “bestia” (l’Italia) dovrebbe essere guidata dalla legge, ma la “sella” è vuota, nessuno svolge il proprio compito.

Dante auspicava una conciliazione, che escludesse il papa dal governo legislativo. Nel 1294, papa Celestino V abdicò e gli succedette il cardinale Benedetto Caetani, ovvero papa Bonifacio VIII, figura temuta e odiata per la sua corruzione e spregiudicatezza. Molti, tra cui Dante, giudicarono negativamente Bonifacio VIII, tanto che il poeta gli riservò un posto all’Inferno, nonostante fosse ancora in vita. I Caetani, famiglia nobile di Gaeta, avevano una cattiva reputazione per la loro mancanza di scrupoli. L’elezione di Bonifacio VIII fu vista da molti come illegittima. Secondo Dante, avvenne non solo attraverso l’inganno di Celestino V, ma anche tramite simonia, cioè la compravendita di cariche ecclesiastiche. Si narra che Celestino V abbia predetto a Bonifacio: «Otterrai il Papato come una volpe, regnerai come un leone, morirai come un cane». Bonifacio VIII era convinto che il papato dovesse avere un ruolo di guida universale, anche in ambito politico, e si impegnò per affermare la superiorità del potere spirituale su quello temporale. Qui risiede la potente critica sociale di Dante: sebbene Bonifacio VIII sia esplicitamente menzionato nel canto XIX, la selva oscura è un simbolo più ampio della corruzione morale che affliggeva la Chiesa e il governo. Dante è profondamente deluso dal comportamento dei pontefici, che avevano trasformato la tomba di Pietro in una «cloaca del sangue e de la puzza». Il poeta critica una società basata sulla compravendita di cariche, titoli e favori. Furono proprio queste critiche a portare Dante all’esilio il 10 marzo 1302, un evento che segnò profondamente la sua vita. Per esorcizzare il dolore, scrisse la Divina Commedia, un’opera di straordinaria importanza e attualità.

Fonte immagine in evidenza: Wikipedia

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