Storytelling inflation: se raccontare diventa un’ossessione

Storytelling inflation

Ogni caffè versato diventa resilienza e ogni monetina trovata è una lezione di vita. Trasformare ogni briciola in un capolavoro narrativo sta creando un’ansia da significato che permea le giornate di chi cura account social. Nel pieno di un fenomeno social che ha tutto il sapore di storytelling inflation, la buona notizia è che si può smettere. E vivere lo stesso.

Quando ogni briciola diventa una metafora di vita

C’è stato un tempo in cui LinkedIn era una piattaforma professionale, un luogo in cui raccontare esperienze lavorative, condividere opportunità e aggiornamenti di settore. Oggi, però, qualcosa è cambiato. LinkedIn (e non solo) è diventato il regno di massime motivazionali, filosofie spicciole e soprattutto di storie. Storie su tutto. Ogni minimo episodio della vita quotidiana viene trasformato in una lezione universale. Il caffè versato diventa metafora di resilienza. Il centesimo trovato a terra è un’occasione per riflettere sul valore della gratitudine. La stampante in ufficio si è rotta? Occasione perfetta per una lezione sulla leadership e la gestione delle crisi.

Il bisogno compulsivo di raccontare storie

Questa tendenza naviga nel mare magnum dello storytelling inflation, l’inflazione narrativa che spinge a raccontare qualunque cosa, spesso esasperandone il significato. Ogni aneddoto diventa un pretesto per esprimere una massima di vita, ogni microevento assume la forma di una parabola edificante.
L’essere umano è biologicamente predisposto a costruire e credere nelle storie: è attraverso le narrazioni che si crea coesione sociale e si dà un senso al mondo. Ma quando questa naturale inclinazione incontra l’economia dell’attenzione dei social media, ecco che la narrazione da strumento diventa una prestazione continua, un esercizio di visibilità che può rasentare il ridicolo.

Da cosa deriva la necessità di raccontare tutto?

Da un punto di vista psicologico, lo storytelling inflation inteso come bisogno compulsivo di raccontare può essere letto attraverso diversi filtri:

  • Bisogno di validazione sociale. Ogni post, ogni storia, ogni massima è un tentativo di costruire la propria immagine pubblica. Si condivide non solo per raccontare, ma per essere riconosciuti, ricevere like e confermare così la propria identità.
  • Tendenza alla drammatizzazione del quotidiano. Trasformare ogni evento in una storia significativa fa sentire protagonisti, al centro di una narrazione epica personale. Anche il più banale ritrovamento di un vecchio biglietto del treno diventa una riflessione sulla fugacità della vita e sull’importanza di fermarsi a guardare il paesaggio.
  • Paura del silenzio e dell’insignificanza. In un ecosistema in cui si esiste solo se si producono contenuti, la normalità diventa invisibile. Non è previsto semplicemente vivere, bisogna raccontare. Non è possibile avere giornate neutre, bisogna trarne insegnamenti universali. Il rischio di non lasciare traccia digitale genera un’ansia sottile che spinge a trasformare ogni briciola in un manifesto, per confermare ancora e ancora il proprio senso, rinnovando il pass per l’esistenza.

Storytelling inflation: LinkedIn e l’industria della motivazione a basso costo

Su LinkedIn questo fenomeno è amplificato dalla presenza pervasiva dei motivatori da tastiera. Manager, coach improvvisati e pseudo-leader affollano il feed con frasi motivazionali, pillole di saggezza e lezioni di leadership. Spesso sono riflessioni vuote, decontestualizzate o basate su aneddoti insignificanti. Eppur funzionano, perché fanno leva su un bisogno psicologico primario: trovare un senso e dare ordine all’incertezza.

Il mondo lavorativo frammentato, precario e iper-competitivo, si trova a guardare negli occhi la ricerca di significato, che diventa essenziale per non perdere la bussola. Le storie motivazionali offrono una cornice rassicurante e un modello da imitare: “se ce l’ha fatta lui partendo dal caffè rovesciato, ce la posso fare anch’io.”

La distorsione narrativa: quando la realtà si piega ai like

Il problema che emerge dal perpetrarsi di questo trend è che l’iper-produzione narrativa crea una distorsione della realtà. Non tutto ha un significato profondo. Non ogni sasso sul cammino dell’uomo è un segnale del destino. La necessità di forzare una narrazione rende la percezione della realtà artificiale, incasellata in strutture prefabbricate che poco hanno a che fare con la complessità e la casualità della vita vera.
Il rischio è quello di alimentare una sorta di ansia da significato: se la giornata è stata banale, se non si è vissuto o raccontato un momento epico, il tempo è andato sprecato? È una domanda implicita che accompagna molti di coloro che coltivano account social e che spinge a sovrainterpretare anche i momenti più neutri.

Storytelling inflation: perché raccontare meno

Raccontare è umano, ma non tutto è una storia. Per la propria salute e un’igiene social, è doveroso concedersi il lusso di vivere senza trasformare tutto in contenuto, senza la necessità di trovare insegnamenti universali in ogni microevento. Forse è proprio nel silenzio narrativo che si riscopre la libertà di esistere senza giustificazioni e senza la necessità di piacere o impressionare qualcuno.

Raccontare è un bisogno psicologico, sì. Ma non è obbligatorio. E non è sempre necessario. Forse, la vera lezione di vita è questa: non tutto ha bisogno di essere una lezione di vita.

Immagine di copertina copyright free creata con DALL-E

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