Diego Armando Maradona e i mondiali del 1994

Diego Armando Maradona

La rincorsa di Diego Armando Maradona ai mondiali del 1994 è soprattutto la rincorsa di un essere umano che si era appena scoperto tale

Nella maggior parte dei casi, ogni storia che si rispetti tende a partire dall’inizio, dalla presentazione del protagonista, del suo mondo, delle sue qualità, poi prosegue nella parte centrale, dove si svolge la maggior parte dell’intreccio e delle complicazioni narrative che dovranno essere parzialmente risolte prima di giungere alla parte finale, quella dello scontro finale, della risoluzione di tutta quanta la storia raccontata, del ritorno con l’elisir del protagonista verso il proprio mondo ordinario.
Ma questa, questa è una storia diversa dalle altre. Lo è anzi tutto per il fatto che chiunque, amante o meno di calcio, conosce a menadito la storia di Diego Armando Maradona. Ma lo è soprattutto perché questa parte della vita e della carriera del Pibe de Oro ha tutte le caratteristiche per essere una storia nella storia, un racconto a sé stante, fatto di coraggio, rivalsa, tragedia. Una storia questa che, spoiler, avrà sì una sua risoluzione, ma di quelle agrodolci, talmente tanto da rendere probabilmente l’intero viaggio dell’eroe ancora più affascinante e allo stesso tempo drammatico. Questa è la storia di come un Dio che si era appena scoperto umano cercò di tornare sul monte Olimpo, questa è la storia della rincorsa di Diego Armando Maradona verso i mondiali del 1994.

Macchina del tempo

25 giugno 1994, Stati Uniti D’America. Argentina e Nigeria si stanno giocando la seconda partita dei gironi del gruppo D dei Mondiali di calcio. La Nigeria passa in vantaggio, ma l’Argentina rimonta, grazie a due gol di Batistuta e a un gol dell’amico di merende Caniggia, su assist proprio di Maradona. A fine partita, si respira gioia e trepidazione nell’aria. Il più festeggiato è ovviamente il capitano, quello con la 10 sulle spalle, il quale è stato sorteggiato per sottoporsi a un test antidoping subito dopo la partita. C’è un che di grottesco a riguardare quella scena. Un’incolpevole infermiera prende Diego per mano, come fosse uno scolaretto e lo accompagna a sottoporsi al test. In quel momento nessuno sa quello che sta per accadere. Diego Armando Maradona risulta positivo all’Efedrina, una sostanza ritenuta dopante. Per questo motivo, viene squalificato dai Mondiali con effetto immediato. La carriera ad alti livelli, ma come i fatti attesteranno, la carriera tutta, di Maradona, finisce in quel momento.

Maledetta polvere bianca

Per arrivare a quel mondiale aveva esaurito probabilmente ogni fibra morale e fisica del proprio essere. Si trovava nella migliore condizione psicofisica della sua carriera. Era motivato a dimostrare qualcosa; prima di tutto a se stesso, poi alla sua famiglia e infine al suo paese, alla sua gente, quella stessa gente che aveva invocato il suo nome durante la roboante sconfitta subita dall’Argentina contro la Colombia nel girone sudamericano di qualificazione ai mondiali. Diego si trovava sugli spalti, incazzato e disilluso, come ogni tifoso argentino in quel momento. Fino a quando, all’improvviso, i tifosi iniziano ad intonare il suo nome; è quasi un’invocazione più che un plebiscito popolare.
Diego non giocava in nazionale da quella fantomatica amichevole Argentina-Brasile disputata nel febbraio del 1993. Nonostante il rifiuto del suo club di allora, il Siviglia, Diego era voluto andare a tutti i costi.

Fino a quel momento, la storia tra Diego e il Siviglia si era dimostrata particolarmente remunerativa, sia per l’uno che per l’altro. Diego aveva ritrovato una certa dose di tranquillità dopo i tumultuosi ultimi anni napoletani e specialmente quanto avvenuto nel marzo del 1991, quando venne trovato positivo alla cocaina dopo un controllo antidoping avvenuto dopo la partita di campionato Bari-Napoli.
Diego aveva iniziato a fare uso di cocaina fin dai tempi delle notti catalane; secondo il compagno di squadra Diego Frena, addirittura prima, fin dai tempi del Boca. Ciò che è certo è che Diego è tanto schiavo della polvere bianca quanto sono schiavi del modo in cui tocca il pallone i tifosi che lo osservano. Questo basta per dare la giusta dimensione della sua dipendenza. Lui stesso dirà più volte di essere ben conscio di quanto la cocaina abbia tolto a lui, alla sua famiglia, ma anche al football. Perché, a detta di molti addetti ai lavori, senza la coca e senza l’infortunio alla caviglia sinistra del 1983 contro il Bilbao, oggi risulterebbe un esercizio quanto mai sterile quello di provare a discutere su chi sia il miglior giocatore della storia.
Ma la storia, lo sapeva bene anche Diego, non si fa con i se, purtroppo…

L’oblio di Diego Armando Maradona

Il Pibe de Oro, che a Napoli era diventato Dio venerato da grandi e piccini, se ne andava dalla città partenopea di notte, come un ladro, o meglio, come un semplice uomo, più solo che mai.
Diego venne squalificato per 15 mesi dall’attività agonistica. Era un essere umano in balia dei suoi demoni e schiacciato dal peso del suo stesso nome.
15 mesi dopo quella squalifica, Siviglia sembra però la soluzione perfetta per ripartire. Molte meno pressioni, una squadra di giocatori che pendono dalle sue labbra, l’ex CT della nazionale del 1986 Bilardo ad allenarlo. Diego ritrova stimoli e serenità. Eppure, quell’idillio dura poco. Dopo quel battibecco dovuto alla volontà di Diego di giocare l’amichevole con il Brasile, i rapporti con il Club e con Bilardo si incrinano. Il club inizia a farlo seguire da un investigatore privato per timore che violi i termini del contratto e con il tecnico, Diego arriverà persino alle mani.
Questa volta, sembra davvero finita la parabola del più grande giocatore della storia. Ecco, sembra. Perché, se c’è una cosa che non si può certo imputare a Diego Armando Maradona è la perseveranza.

D1OS

È sugli spalti, in borghese, vestito da semplice tifoso della nazionale. Sta assistendo ad una delle peggiori sconfitte che l’albiceleste abbia mai patito. Il pubblico lo invoca. Qualcosa dentro di lui probabilmente scatta.
A 32, quasi 33 anni, Diego Maradona può pressoché reputarsi un ex calciatore. Eppure, quella nazionale ha ancora bisogno del suo totem, ma soprattutto Diego ha ancora disperato bisogno di vestire quella maglia.
Le due parti si vengono incontro. Diego, che in quel momento più che giocare giochicchia con i Newell’s Old Boys, torna in nazionale, lo fa ovviamente con la fascia al braccio e con la 10 sulle spalle. Avrà l’arduo compito di guidare i suoi al fattibile quanto terrificante compito di sconfiggere l’Australia tra andata e ritorno e spazzare via i demoni della non qualificazione ai mondiali.

È il 31 ottobre 1993, Diego ha da pochi giorni compiuto 33 anni, non corre più come un demonio, non salta più tutto e tutti, ma è sempre Dio e la sua aura avvolge tutto. Anche con un Diego a mezzo servizio, l’Argentina sconfigge l’Australia e andrà ai mondiali del 1994.
È da qui che inizia la speciale rincorsa di Diego verso il mondiale del 1994. Non che il suo posto tra i 22 fosse in dubbio, anzi. Maradona rappresenta per l’Argentina del presidente Grondona e per la FIFA una, se non la più grande attrazione di quel mondiale. Sebbene molto si sia detto riguardo al timore, non certo infondato, che qualora l’Argentina avesse vinto, Diego avrebbe probabilmente dedicato la vittoria al suo amico e allo stesso tempo nemico pubblico numero 1 negli Stati Uniti Fidel Castro.
Diego sa di aver già staccato il biglietto per gli States, ma sa anche di non poter essere di alcun aiuto ai suoi compagni nelle condizioni in cui si era presentato contro l’Australia.

Diego Armando Maradona e Rocky Balboa

Si affida a Fernando Signorini, suo storico preparatore, e a Daniele Cerrini, preparatore atletico più avvezzo al bodybuilding che al calcio, in verità. L’intera preparazione si svolge a Villa Chicca, località sperduta, lontana dalla calca e dal rumore di Buenos Aires. L’obiettivo è quello di tener lontano il campione da ogni tipo di distrazione terrena.
L’allenamento a cui Diego si sottopone in quei mesi non ha niente a che fare con tutto quello che aveva fatto in precedenza.
Credo si possa dire che chiunque di noi abbia in mente le sequenze di allenamento di Rocky, accompagnate dalla celebre colonna sonora. Ecco, personalmente mi sono sempre prefigurato la preparazione di Diego a quei mondiali come l’allenamento che Rocky fa nel terzo capitolo, quello dove Apollo Creed, suo ex rivale, lo sottopone a un durissimo allenamento per affrontare il nemico interpretato da Mister T.
I parallelismi tra il terzo film di Rocky e lo stato attuale di Maradona si sprecano. Un campione ormai praticamente al tramonto, arrivato ad avere zero stimoli. Montato, pieno di sé, che ha ormai perso contatto con la realtà, offuscato dalla luce dei riflettori. Arrivi a sentirti invincibile, arrivi a sentirti un Dio. Non è neanche colpa tua in fondo, sono gli altri a dirtelo, a farti sentire in quel modo. E nonostante tu sia arrivato dal niente, arrivi a crederci… e una volta che ci credi è dura tornare sulla terra, tornare tra gli altri.
Diego e Rocky, due facce di una stessa medaglia, due campioni della gente, due uomini semplici provenienti dalla polvere che di colpo si erano ritrovati a banchettare con gli dèi, sul monte Olimpo. Prima di venire espulsi, all’improvviso, per colpa loro e altrui.
Diego, come Rocky, corre, suda, si atteggia quasi da Marine, boxa persino. Vive da recluso, in un posto dimenticato da Dio, ma ritrova se stesso. Si disintossica dalla coca, perde 12 chili e per la prima volta in vita sua può dire di aver messo al servizio del proprio sconfinato talento un fisico atleticamente adatto a supportarlo.
Non è mai stato più in forma di così. Vuole disputare il suo quarto mondiale, ma soprattutto vuole vincerlo.

Diego Armando Maradona, un sogno che si avvera

Vola negli States con i suoi compagni, i quali, al primo allenamento, sono sconvolti nel vederlo in quello stato. Un Diego così non si era mai visto prima e non si vedrà purtroppo neanche dopo.
Secondo il parere di molti addetti ai lavori, quella nazionale avrebbe vinto il mondiale guidata dal suo capitano.
L’Argentina vince la gara inaugurale contro la Grecia, con un gol mozzafiato di Maradona. Diego corre verso la telecamera; ha lo sguardo allucinato, sembra avere il diavolo dentro, come cantava Zucchero. E invece è solo tornato D1OS, solo particolarmente incazzato. Con se stesso, con quelli che lo avevano fatto soffrire. Era tornato, più forte di prima. Eppure, come la storia di Maradona ci ha insegnato anche fin troppe volte, a momenti di picco seguono momenti di picchiata. Perché, più sali in alto e ti avvicini al sole, più rischi di bruciarti e ricadere al suolo.

This is the end

Torniamo a quell’Argentina-Nigeria vinta con convinzione, come solo le grandi squadre sanno fare. Ma torniamo soprattutto agli attimi immediatamente successivi, quando una incolpevole infermiera viene affidato l’ingrato compito di accompagnare il Dio del calcio verso gli inferi.
Di quella positività all’Efedrina se ne sono dette tante. A iniziare dall’errore in buona fede fatto probabilmente da Cerrini, che aveva sostituito l’integratore che era stato acquistato in Argentina con un altro, molto simile, ma di provenienza americana, senza evidentemente controllare che si trattasse di qualcosa di proibito. Passando per le teorie del complotto nei confronti del Pibe de Oro, la manomissione del campione e chi più ne ha più ne metta per far andare quella giostra impazzita.
Ciò che rimane a più di 30 anni da quel giorno è tanto amaro in bocca. E una consapevolezza. Quel pomeriggio di mezza estate americano è morto Diego Armando Maradona, quello vero, prima ancora che il suo corpo terrestre lo facesse qualche anno fa. Quello che successe negli anni successivi è già ben documentato e non serve ribadirlo ulteriormente. Diego non ha più ritrovato la serenità di quei giorni americani, ha ripreso le cattive abitudini, ha gettato la spugna sul ring della vita.
Eppure, tutto Diego, con tutte le sue contraddizioni e con tutta la sua poesia sono racchiuse in una frase, detta durante il proprio “ritiro ufficiale” alla Bombonera di Buenos Aires, 7 anni dopo l’esclusione da quei mondiali.

Il pallone non si sporca

“La Pelota No Se Mancha”
La traduzione è semplice, potete arrivarci anche da soli. Lo stesso vale per il signore che a suo tempo l’ha pronunciata.
Diego Armando Maradona. Dio travestito da calciatore, ma allo stesso tempo umano, troppo umano per portare sulle spalle il peso del mondo come un Atlante albiceleste.
Il pallone non si sporca, non ammette macchie. Perché il pallone è sacro, come una sorta di vero e proprio oggetto da cerimonia, di quelli che magari da “chierichetto” maneggiavate durante la messa. Diego, a quel pallone ha tenuto probabilmente più di quanto non abbia tenuto a se stesso.
Lo ha protetto da tutti, tranne che dai propri demoni. Si è autodistrutto nei modi più svariati e fantasiosi, lo ha fatto per alleviare anche solo di qualche grammo quel peso snervante che doveva tenere tutto da solo. Eppure, in quei mesi passati a Villa Chicca, tutto era stato spazzato via. Per un sogno, una promessa da mantenere a tutti costi. E nonostante come tutto sia finito, quella promessa Diego l’ha mantenuta. Sul prato verde, le promesse, le manteneva sempre.

Fonte Immagine: Wikimedia

Link immagine: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Maradona_y_Bochini.jpg

Autore: Presidencia de la Nación Argentina

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