Dal 24 febbraio al 5 marzo va in scena al Bellini Aspettando Godot di Samuel Beckett, con regia, scene e costumi a cura di Theodoros Terzopoulos. La città di Napoli stava aspettando da tempo un’opera così intensa e drammatica, piena di insensatezza, eppure necessaria, nella quale si vede riflesso lo spirito partenopeo, che sopravvive in un tempo iterativo, in cui ogni fine corrisponde a un nuovo inizio.
Gli attori Paolo Musio, Stefano Randisi, Enzo Vetrano, Giulio Germano Cervi e Rocco Ancarola occupano lo spazio claustrofobico della scena, distribuita su due piani, dalla forma cubica e schiacciata, abitano il luogo scenico come una costrizione, lo sopportano per la durata dello spettacolo, come una croce.
Le musiche originali sono di Panayiotis Velianitis, la cui tensione interna contribuisce alla creazione del senso di oppressione, che l’intera atmosfera teatrale trasmette.
«Niente da fare»: Aspettando Godot si presenta come una lunga pausa in cui ogni fine non è mai l’ultimo
Protagonisti della messinscena sono due mendicanti, Vladimiro ed Estragone che, stesi a terra, accucciati l’uno sull’altro, trascorrono le loro ore in attesa di un certo Godot, che non hanno mai visto, e non sono neppure sicuri di trovarsi nel luogo giusto dell’appuntamento, e non sanno in quale giorno sia fissato l’incontro.
I due si intrattengono in conversazioni lunghissime, stagnanti in una caotica desolazione. Il battibecco è continuo e ininterrotto, ogni risposta è piena di numerosissimi particolari inutili, privi di scopo. Ogni parola pare ricondurre a un simbolo che, però, non vuole simboleggiare niente.
Il pubblico, a fine spettacolo, si domanda a cosa ha assistito e il perché di una tale insulsa fatica, che i personaggi hanno perpetuato fino allo sfinimento. Si sente smarrito dal volume piatto della scenografia, dalla contraddizione di dettagli rifiniti alla perfezione, ma per comunicare cosa?
Al centro del palcoscenico c’è la riproduzione di quella che sembra essere un’enorme croce: simbolo della cristianità o allegoria di una condanna?
Se in un primo momento lo spettatore è portato a seguire ogni singolo indizio, come se dovesse scoprire qualche traccia per una possibile interpretazione, man mano che la rappresentazione procede, si apre gradualmente al sentire, spegne il lume della ragione, mette a tacere l’ossessione compulsiva di dare una spiegazione ad ogni cosa.
La difficoltà di abbandonarsi subito, totalmente, al piacere della finzione teatrale nasce dalla resistenza ad accettare che quel piccolo universo sia così disperatamente insensato, sommerso, inspiegabilmente terso, e, al contempo, dubbioso, senza alcun valido motivo.
Il regista ateniese (celebre direttore di tragedie antiche) parte proprio dal «nucleo ideologico della tragedia», intrinseco nelle figure di Vladimiro ed Estragone, per realizzare una commedia grottesca e complessa, drammaticamente umana.
Chi è Godot? La felicità? Dio? Forse anche Terzopoulos si è posto questa domanda, ma, infine, si è arreso, ed è giunto al risultato miracoloso di oggettivare l’assurdo, per mezzo di dialoghi vuoti e di una comicità spensierata (di qui pro quo e doppi sensi), che è fortemente autocritica ed autoironica.
La «commedia dell’assenza» è, in realtà, un dramma, in cui ogni sovrappiù di significato, l’abbondanza di argomentazioni, un eccesso di tentativi di formulare soluzioni agli enigmi umani, finisce per svuotare, anziché riempire.
Vladimiro ed Estragone sono una coppia anomala: sono amici, ma sembrano marito e moglie, hanno un rapporto affettuoso e scontroso, si amano e si odiano, sono irritabili come due vecchie zitelle, ma giocherelloni come bambini. La coppia ha mille sfumature di tipo relazionale e psicologico, è destabilizzante e confortante, è vivace e umana, smaniosa e dispettosa.
Sconcertante è la disinvoltura con la quale i due affrontano argomenti delicati come il suicidio, il tempo, lo sfruttamento crudele e la schiavitù (quest’ultimi suggeriti dall’incontro con Pozzo e Lucky).
Ecco che si presenta un’altra coppia, si contrappone questa alla prima o ne è complementare?
Legittimo potrebbe essere pensare a Pozzo e Lucky come il capitalista e il proletario, e a Vladimiro ed Estragone come la parte inerme, i contemplatori indifferenti, i blateratori seriali, privi di capacità e prontezza d’azione, il cui destino è aspettare qualcuno che mai arriverà. Ma questa è solo un’ipotesi.
L’immobilismo della scena e, come specchio, pure della vita – che si divide tra un sopra e un sotto, tra euforia e disperazione – viene trasmesso tramite una disposizione irrequieta di cubi, che mai si compie in maniera risolutiva, pur apparendo geometricamente armoniosa.
Tutto si ripete: l’arrivo di Pozzo e Lucky viene riproposto per due volte – difatti l’originale versione è divisa in due atti quasi identici – con l’eccezione che, nella seconda visita, che avviene nello stesso posto della sera precedente, i due sono rispettivamente l’uno cieco, e l’altro stremato e delirante.
Il luogo del teatro, forse, è l’unico che consente di abbracciare appieno l’essenza autentica del messaggio che l’opera trasmette, pur non rivelandolo apertamente: l’angoscia del no-senso.
Il comico duo, che ha una vivace personalità, prende in giro se stesso fino al punto di trasformarsi nel suo rovescio: due eroi (o antieroi) tragici, perseguitati da pensieri negativi, che progettano l’impiccagione, che sentono il suicidio necessario, e sono tormentati dall’urgenza immediata di ingannare l’attesa, illudendosi di poterla interrompere definitivamente, con un gesto estremo.
Però, tanto vale aspettare, anche solo un altro giorno, ché Godot arriverà domani.
Il palcoscenico del Bellini si riempie di sangue e coltelli, di libri stracciati e fogli sparsi, e, ancora, di pagine scritte, imbrattate di rosso.
Aspettando Godot di Terzopoulos è insieme materialistico e ascetico, si presenta come un caleidoscopio di interpretazioni, che aggiungono ulteriori incertezze alla versione di Beckett, in un raddoppiamento di definizioni, che termina con l’esplosione di un senso, che non ha ragione d’esistere e che, per questo, muore sul nascere.
Aspettiamo Godot, noi e loro, nell’attesa di una fine, che non è mai definitiva. Allora ci struggiamo, cerchiamo di cogliere piccoli bagliori di soluzioni temporanee dalla luce riflessa nei coltelli, afferrati dai protagonisti con veemenza, per iniziare un combattimento, che – come tutte le altre azioni- si rivela ingiustificato, perché avviene contro loro stessi.
Nel buio della platea si avverte il tempo come una minaccia, come un dispotico tiranno, e non è possibile gettare lo sguardo sull’orologio che portiamo al polso, non ci è concesso controllare che giorno è sul calendario, siamo costretti a partecipare all’inganno.
Aspettando Godot di Terzopoulos fa male, perché racconta una verità, perché è una vera e propria esibizione di tutte le miserie che, fuori dallo spazio della performance, preferiamo non guardare: la vacuità della guerra, la denunzia del senso di onnipotenza, il peso delle croci del quotidiano, di cui è impossibile liberarsi.
È un Aspettando Godot sensazionale, perché pieno di niente da capire, e tutto da sentire.
copyright Editions de Minuit
traduzione Carlo Fruttero
consulenza drammaturgica e assistenza alla regia Michalis Traitsis
training attoriale – Metodo Terzopoulos Giulio Germano Cervi
produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
in collaborazione con Attis Theatre Company
Orari spettacoli: feriali h. 20:45, sabato 25/02 h. 19:00, mercoledì h. 17:30, domenica h. 18:00
Fonte immagine per l’articolo sui Terzopoulos: Ufficio Stampa