En Abyme di Tolja Djoković: un testo prismatico
En Abyme di Tolja Djoković, vincitrice del 57° Premio Riccione per il Teatro, va in scena al Piccolo Bellini di Napoli dal 23 al 28 aprile 2024 con la regia di Fabiana Iacozzilli.
L’opera prende le mosse da una dettagliata trattazione scientifica a livello geologico e geografico della Fossa delle Marianne, localizzata nell’Oceano Pacifico. In questo luogo è situato l’abisso più profondo del pianeta, il Challenger Deep: una zona adopelagica, dal greco “come l’Ade”, e quasi disabitata. La narrazione si intreccia con la vicenda di James Cameron, che nel 2012 raggiunse i fondali di quel posto sconosciuto, a bordo del batiscafo Deepsea Challenger.
L’impresa del regista di Titanic si fa metafora di un’esplorazione profonda dell’animo umano: En Abyme porta alla luce l’immersione immaginifica di una donna che ripercorre i ricordi dolorosi della sua infanzia. L’immagine di James Cameron che poggia il viso sull’oblò del finestrino del batiscafo, guardando l’abisso al di fuori, è sovrapponibile alla scena in cui la donna guarda dentro di sé, mettendosi faccia a faccia con la bambina che era stata, che le si rivolge dicendole: “Ti stavo aspettando. Sei in ritardo.”
Nel testo, quindi, quattro voci dialogano costantemente: Il documentario dell’impresa di James Cameron, raccontato da Evelina Rosselli, Le didascalie, con la voce di Simone Barraco, L’occhio della telecamera, impersonato da Oscar De Summa. Al centro dell’opera, la storia della donna/bambina e del suo abisso, interpretate rispettivamente da Francesca Farcomeni.e da Aurora Occhiuzzi.
En Abyme di Tolja Djoković: discesa nelle profondità della relazione con il paterno
La donna si specchia nel suo abisso personale e, immergendosi nelle fenditure più profonde del suo passato, entra in contatto con una parte dolorosa del suo vissuto. Sulla scena un grande telo bianco squarciato che si fa simbolo della ferita ancora sanguinante causata dalla relazione con suo padre e del pozzo profondo in cui si addentra. L’asettica e minuziosa narrazione relativa all’abisso Deepsea Challenger e all’impresa del regista stride con la forte emotività dei monologhi della donna, che prorompono all’esterno con foga e che non lasciano indifferenti.
Agli occhi del pubblico si vede una figura paterna affettuosa ma è evidente che la realtà non è come sembra: così come dalla superfice dell’acqua non è possibile notare ciò che si agita sotto di essa, gli spettatori non riescono a cogliere tutti i dettagli di una delle loro conversazioni, sostenuta a voce bassa, quasi sussurrata. Sullo sfondo di una delle tante case in cui lei e il padre hanno vissuto, numerosi scatoloni ammassati, abbandonati come i relitti nelle profondità marine. Lei stessa somigliante a un relitto, mentre in solitudine guardava e riguardava il film Titanic di James Cameron, punzecchiata affettuosasmente dal padre, mentrele diceva che era ormai risaputo che si trattava di “una tragedia”.
L’elemento predominante sulla scena di En Abyme è l’acqua: fluida, accogliente come il ventre materno. L’acqua dell’oceano in cui si trova l’abisso Challenger Deep, poi l’acqua della piscina in cui la donna si trova a nuotare, prima di erompere in un pianto disperato. Lo scrosciare della pioggia, il mare della spiaggia su cui era stata con suo padre e, infine, l’acqua che fuoriesce da una vasca da bagno ormai traboccante.
En Abyme di Tolja Djoković: l’abisso come introspezione
En Abyme, diretto da Fabiana Iacozzilli, è un’opera fortemente introspettiva che lascia ampio spazio al pubblico di riconoscersi nella storia della donna. Lo spettatore è sfidato a spingersi nel buio degli abissi, luoghi non battuti dove si nascondono i sentimenti e i pensieri più reconditi di ogni esistenza umana. Nelle profondità più remote, a patto di essere disposti a immergersi fin lì, è possibile fermarsi a riflettere: c’è solo il silenzio, che permette di scandagliare con attenzione i fondali del proprio vissuto. Tuttavia, è solo passando oltre che si potrà poi essere in grado di riemergere dai meandri più cupi di sé: liberarsi dalla zavorra che ci spinge sempre più giù verso il fondo per tornare in superficie respirando a pieni polmoni, staccandosi da quelli che erano stati momenti paragonabili a “giorni come notti di 24 ore”.
Un’opera da non perdere, che vi aspetta al Piccolo Bellini di Napoli fino al 28 Aprile.
Fonte immagine di copertina e galleria: Ufficio stampa