Hamlet di Thomas Ostermeier va in scena dal 12 al 15 dicembre al Teatro Bellini. Lo spettacolo, dal 2008 in giro per i teatri internazionali, torna in Italia per la seconda volta – già presentato nel 2011 alla Biennale di Venezia – e approda a Napoli.
Per Gabriele Russo (direttore artistico del Bellini) sembrava un sogno impossibile da realizzare, e invece si è avverato, perché, in questo «palcoscenico di matti» che è la vita, tutto può accadere.
Thomas Ostermeier è regista residente e membro della direzione artistica della Schaubühne dal 1999. Nel 2011 ha vinto il Leone d’oro alla carriera in occasione del 41° Festival Internazionale del Teatro alla Biennale di Venezia.
Hamlet di Ostermeier è un sogno ad occhi aperti in cui la visione filmica si fonde con l’azione scenica, il palcoscenico si fa terreno fertile per infangare la coscienza con l’incoscienza, le corone si portano a rovescio sulle teste dei folli, i fantasmi appaiono tra frange di catene d’oro che colano dall’alto della scenografia.
Hamlet di Thomas Ostermeier rompe il patto di finzione tra attore e pubblico e incarna la natura superomistica dell’uomo-attore, dello spettro-umano, del re-fantasma.
Ci troviamo di fronte al magico mondo del teatro che entra a far parte della vita abbracciandone tutti gli aspetti: la sessualità e il desiderio, la sete di potere e di ricchezza, la perversione, la fragilità e le malinconie che per il mondo reale risultano inessenziali e, invece, sulla scena costituiscono il cuore del dramma, l’essenza della tragedia.
In Hamlet di Ostermeier ci sono solo sei attori in scena, sufficienti per interpretare più personaggi e diretti da un regista che riesce a tirare fuori tutto quello che hanno da dire, per mezzo delle più disparate forme di comunicazione: movimenti scenici al limite dell’acrobazia, corpo a corpo, simulazioni di amplessi, morti sanguinose ed erronee, ma pure scoregge, rutti, schiamazzi, e al diavolo il politically correct.
Il folle non si cura di ciò che pensa la gente, non si presenta infiocchettato ed educato secondo le buone maniere, ma con la pancia da birra e le bretelle a penzoloni, i capelli unti e i vestiti sudici.
La scena si apre con un idrante che spruzza pioggia sui protagonisti e sul terreno, gli attori recitano e si costruiscono pure la scenografia. Stanno seppellendo il povero re, misteriosamente morto a causa del morso di un serpente.
La famiglia reale – disperatamente finta come nel quadretto del film Festen di Vinterberg – gettando vero terriccio sulla tomba, altro non sta facendo che sparpagliare granelli neri a terra, come fosse il giorno di semina delle menzogne sulla ricerca ostinata di verità da parte di Amleto, il quale pare già sentire l’odore di marcio emanato dalle ricche pietanze in bella vista sulla tavola imbandita.
L’Hamlet di Ostermeier non finge ipocritamente di stare bene, non indossa i panni del principino virtuoso e perfetto, è un matto della contemporaneità, uno che vuole distruggere tutto, con l’impeto e la forza di un bambino che ha perduto l’illusione del sogno, che è stato irreversibilmente distaccato dall’eroe paterno. È un Joker phillipsiano, un protagonista cinico, infelice e sfigato, come uno di quelli che si vedono nei film di Kaurismäki.
La messinscena teatrale è geniale a tal punto da mettere insieme la comicità muta delle gag di Buster Keaton con la tragicità stridente dei versi shakespeariani.
Così Amleto comunica attraverso pochi semplici gesti: sta seduto a terra a cosce aperte, gli occhi gli strabuzzano fuori dalle orbite, lancia in faccia alla madre pugni di terra, si insozza la camicia ad ogni boccone, sputa e rigurgita rumorosamente. È seccato dal mondo intero, l’intero pianeta terrestre gli sembra ora un giardino pieno di erbacce, dove «tutti i fiori sani vengono strangolati e solo la malerba prospera».
Hamlet di Ostermeier è un giovane che ormai si cura troppo poco della vita per paura di perderla, e allora la scena può avanzare e schiacciarlo sotto di sé, il palcoscenico travolgere e inghiottire lo spettatore, lo scroscio di catene d’oro immobilizzarlo sulla poltrona.
Tanto quelle due ore e quaranta di spettacolo sono una forma di sogno, di sonno, di non essere – la simulazione gode dell’ausilio del buio della sala, nero mortuario – ed ecco cosa sono il teatro, il gioco della finzione, la perdita di sé..
I cartoni di latte sulla lunga tavola bianca contengono sangue, la purezza è appestata dal male, dalla perversione, dall’incubo del potere che gode e mangia sulle ceneri degli altri, dei miseri onesti, fa bunga bunga nelle televisioni nazionali e si nutre di suprematismo.
Amleto conosce e ridacchia anche della Brexit, quando lo zio lo costringe a partire per l’Inghilterra perché considerato troppo pericoloso per continuare a circolare nel regno di Danimarca.
In Hamlet di Ostermeier, Gertrude indossa gli occhiali scuri ed è il fantasma di se stessa, perché mostra tutto il suo lato malvagio, la sua inettitudine. Ha l’aspetto di una che abusa di droghe e passa la notte a ballare musica elettronica. Chissà dov’è finita la dolce e candida madre di Amleto, compare solo sporadicamente in primo piano proiettata sullo schermo d’oro (lo stesso oro per cui ha rinnegato tutti i suoi valori).
L’obiettivo della videocamera è l’unico luogo in cui può confessare a se stessa la verità. I primissimi piani sugli occhi e sull’espressione del volto non possono mentire. Anche «le soavi campane, pur capaci di emettere musica celestiale, quando diventano stonate o vengono suonate rozzamente, producono solo un suono discorde e spiacevole».
L’Hamlet di Ostermeier indossa una seducente lingerie e si mette nei panni della madre che cade ai piedi dello zio sedotta dal suo fascino da rozzo. L’uomo è così volgarmente virile da sembrare il surrogato del vero Re.
La pièce teatrale, che ha lo scopo di smuovere la coscienza del colpevole per indurlo alla confessione, è di una tale potenza comica e provocatoria al punto da farci sentire dei pazzi che stanno avendo un’allucinazione, anziché vedere rappresentato il buon vecchio Amleto di Shakespeare.
L’Hamlet di Ostermeier è punk, rivoluzionario, è un’opera di rottura, che infanga il buon costume, lo sbugiarda, fa un pompino a Sua Maestà.
La follia contraffatta di Amleto si trasforma in vera pazzia, perché Lars Eidinger è un pazzo, un attore incredibile, in grado di calarsi così tanto nel ruolo, da giocare con i soprattitoli, modificando le battute, improvvisando, disattendendo tutte le aspettative, rubando ombrelli dalla sala per battersi a duello con Laerte. E proprio quest’ultimo, a un punto, si vede costretto a interrompere la rappresentazione per chiedere al pubblico in sala se è tutto ok e nessuno si è fatto male dopo il lancio degli oggetti scenici.
Hamlet di Ostermeier è una forma di teatro che incarna appieno il verso shakespeariano «To be, or not to be, that is the question», con ogni vertebra, con lo scorrere del sangue nei vasi sanguigni e con pulsioni muscolari. E tutto questo è assolutamente visibile sulla scena, se alla bravura degli attori si mescola un po’ del proprio sogno, il potere della propria immaginazione.
Il dubbio amletico nell’Hamlet di Ostermeier si carica di ulteriore complessità, perché a quell’incertezza di fronte alla scelta tra finzione e realtà, tra vita (intesa come sopportazione del dolore) e morte (ovvero la quiete, la stasi), se ne aggiunge un’altra ancora: se tutto il mondo crolla, vale la pena sopravvivere?
Forse vedere Amleto conversare con il vuoto non dovrebbe più sconvolgere così tanto Gertrude, perché oggi poter ancora avere una visione sarebbe una benedizione. È anche per questo che Thomas Ostermeier alle battute degli attori vuole aggiungere l’osservazione dei dettagli fisici, inquadrati dall’occhio potente della camera, sotto il cui sguardo nessuno mente?
Possano morire tutti avvelenati, che il mondo osservando questo scempio possa ripudiare le proprie iniquità e cominciare a pensare a come espiare i propri peccati!
L’oblio è la forma più potente di morte, una morte irreversibile, totale, anestetizzante, una morte a cui non può seguire alcun’altra forma di vita. Amleto ha, però, il dono di selezionare i ricordi, e può togliersi dalla testa tutto ciò che ha letto, imparato e amato, ma non il volto del padre al quale ha fatto una promessa.
Hamlet di Ostermeier è una bomba a orologeria, un’esplosione di sangue e sperma, di morte e di vita. Dal fango di cui è cosparso il palcoscenico viene fuori il racconto.
Se nell’Amleto di Shakespeare toccava a Orazio dare ai posteri un resoconto fedele dell’accaduto, Hamlet di Thomas Ostermeier ci costringe a toglierci le mani dagli occhi e sentire su di noi la responsabilità del presente, l’urgenza di continuare ad essere nello stato circostante di non essere in cui si trova il nostro mondo, ché il peggio ormai è qui, non altrove.
In Hamlet di Ostermeier la pellicola è uno svelamento, toglie dagli occhi il «balsamo dell’illusione», prova quanto più possibile ad avvicinarsi alla verità. La messinscena teatrale, invece, sfugge a questa ricerca del vero, perché il teatro è insieme cielo e inferno, realtà e finzione.
La corona da re che Amleto indossa a rovescio è il segno lampante che «non esiste nulla di buono o cattivo in sé, è il pensiero che lo rende tale».
Hamlet di Ostermeier per il pubblico è un esercizio di presenza e di assenza insieme, di allontanamento dal proprio sé e di risveglio della coscienza, perché la destrutturazione totale, l’audacia, l’azzardo, il punk sempre ti spostano da dove sei e ti muovono verso nuovi mondi.
Il pubblico lascia la sala con gli occhi fuori dalle orbite e la bocca spalancata.
Hamlet
da William Shakespeare
direzione Thomas Ostermeier
con Jenny König, Konrad Singer, Lars Eidinger, Urs Jucker, Robert Beyer, Damir Avdic
scenografia Jan Pappelbaum
costumi Nina Wetzel
musica Nils Ostendorf
drammaturgia Mario von Mayenburg
video Sebastien Dupouey
light designer Erich Schneider
combattimento scenico René Lay
una produzione Schaubühne am Lehniner Platz
in coproduzione con Festival Athen e Festival d’Avignon
Lo spettacolo al Teatro Bellini è in collaborazione con Goethe – Institut Neapel
fonte foto di copertina: ufficio stampa