Con Hospes,-itis riparte la nuova stagione del Teatro di Napoli e sembra di tornare a casa. Il brusio degli incontri all’ingresso in sala, poi il silenzio improvviso dell’attesa e il respiro sospeso quando il sipario si alza, infine le emozioni tutte lì sul palcoscenico, messe in subbuglio e poi ricomposte con la magia che solo il teatro sa regalare. Se a tutto questo aggiungi la forza scenica che Davide Iodice riesce a dare alla delicata drammaticità del testo di Fabio Pisano, hai la sensazione di partecipare ad un rito sacro e magico che nulla può spezzare.
Sospiro, immagini evocative e rumori incalzanti, poi silenzi netti e dialoghi gravi e monotoni tra personaggi che appartengono ad una gerarchia ben precisa, un rigido gioco di ruoli che si consuma inutilmente nell’attesa del fine vita. Hospes è tutto questo, racchiuso nella monotonia di una struttura di accoglienza per malati affetti da malattie rare e allo stadio terminale. Hospes è un luogo sospeso e lontano dalla realtà, un luogo dove il tempo scorre monotono nell’attesa che la morte giunga a compiere il suo dovere, un luogo dove le identità si confondono con le patologie in maniera totalizzante.
Attraverso la quotidianità dei pazienti, ognuno soprannominato con il nome della patologia che lo affligge, viviamo il dramma della solitudine e dell’incomunicabilità che attanaglia ogni essere umano dinanzi alla consapevolezza di non avere più scampo. Nell’orgogliosa dignità di Purpura (una struggente Carolina Cametti), nell’angosciosa esasperazione di Rohhad (un intenso Emilio Vacca), nell’ostinazione di Minamata (Angelica Bifano) e nell’intermittente confusione di Schindler (Damiano Rossi) così come in tutti gli altri ospiti di Hospes, ritroviamo le estreme difese che il genere umano, nelle sue innumerevoli varianti, tenta di frapporre tra sé e la morte. In tutti loro si percepisce la ricerca di un’esperienza unica e irripetibile, un gesto estremo che restituisca un senso all’esistenza nel momento in cui sta per sfuggire tra le dita o perlomeno che la lasci definitivamente andar via.
Apparentemente su un’altra sponda ritroviamo il personale dell’hospice; anestetizzati dalla consuetudine con il dolore e con l’inevitabilità della morte, il Direttore (Orlando Cinque) e gli altri addetti sono ossessivamente impegnati nel restituire dignità agli ultimi giorni dei loro pazienti. Ma non c’è empatia né compassione nel loro prendersi cura dei pazienti, c’è solo un ostinato senso del dovere e l’illusione che la dignità risieda solo nell’ordine attraverso il quale il sistema dell’hospice funziona.
Sopra tutto e tutti c’è la morte (Aida Talliente), inesorabile scandisce il tempo e le vicende dei personaggi con i suoi sospiri, imperturbabile assiste ai drammi dei malati, beffarda schernisce l’illusione di normalità dei sani. Perché non c’è normalità dentro le pareti di plexiglass di Hospes, non c’è differenza tra pazienti e medici, nessuno è veramente sano né salvo dalla morte né dentro né fuori da Hospes.
Hospes,-itis è un viaggio visionario nel dolore, la metafora di una condizione che da remota e personale è diventata improvvisamente comunitaria e universale, il ritratto dipinto di emozioni di una realtà con la quale tutti siamo stati costretti a scontrarci. In nessun altro modo si potrebbe affrontare il dramma del presente se non esorcizzandone il dolore, e in questo l’Hospes di Iodice è il miglior esercizio di sopravvivenza che si possa immaginare. Hospes sarà in scena al Teatro San Ferdinando dal 12 al 17 Ottobre, siete ancora in tempo per vivere questa catarsi.
Fonte Immagine: Teatro di Napoli