La Ciociara al Teatro Marconi | Recensione

La Ciociara

Dal 12 al 15 dicembre, il palcoscenico del Teatro Marconi a Roma ha riportato in scena uno dei capolavori dello scrittore e drammaturgo Alberto Moravia: La Ciociara, nella regia di Aldo Reggiani.

A 39 anni dalla prima messa in scena, l’attrice Caterina Costantini, insieme alla compagnia di Planet Production e di Teatro Al Massimo, ha riproposto la riduzione teatrale del romanzo La Ciociara nell’adattamento di Annibale Ruccello al Teatro Marconi di Roma. Quello odierno è forse il momento storico più incline a questa riproposta. Un momento storico così simile a quello delle ultime fasi della Seconda Guerra mondiale, in cui l’opera di Moravia è ambientata: conflitti, bombardamenti e violenze, infatti, sono purtroppo argomento di ogni giorno. Un momento storico che ci porta a fare nostre le parole della protagonista Cesira, che, fin dall’inizio della messinscena, arriva alla consapevolezza che alla fine “è tutta colpa della guerra”. 

La trama de La Ciociara di Alberto Moravia 

Il romanzo di Alberto Moravia tratta la storia di Cesira, una donna proveniente dalla Ciociaria, da quei territori del Lazio posti a sud-est di Roma. È la storia di una contadina, che alla morte del marito negoziante si trasferisce a Roma, dove possiede una bottega. È la storia di una madre, che per proteggere la figlia tredicenne (Rosetta) dai bombardamenti degli ultimi anni della Seconda Guerra mondiale decide di lasciare Roma e di trovare rifugio nel suo paesino natale in Ciociaria. Da questo momento in poi, però, le due donne, madre e figlia, sono costrette a sopportare e vivere una serie di situazioni dolorose e strazianti, fino all’episodio della violenza subìta da Rosetta da parte di un gruppo di soldati alleati marocchini. 

L’adattamento de La Ciociara di Annibale Ruccello 

Si accendono le luci sul palco del Teatro Marconi: sullo sfondo, una scenografia semplice ed essenziale, fatta di macerie e valigie di cartone. La voglia di ricominciare, partendo dalla distruzione. Al centro del palcoscenico, Cesira (Caterina Costantini) è seduta su una sedia di legno, mentre la figlia Rosetta (Flavia De Stefano) le chiede dei soldi per permettere al marito di comprarsi una macchina. È questa la particolarità dell’adattamento di Annibale Ruccello: La Ciociara inizia dalla fine, da un “dopo”, in cui si nota il tentativo e la voglia da parte delle due donne di tornare ad una vita normale dopo la guerra. Infatti, come ha affermato la stessa attrice Caterina Costantini «lo spettacolo comincia dalla fine, dopo il tragico evento, quando l’acutezza delle sensazioni che si provano durante l’emergenza finisce e la piccola vita di tutti i giorni frantuma l’esistenza in mille piccole fastidi».  

Cesira rimane sola sul palco, illuminata da un solo faretto, che crea ombre e chiaroscuri sul suo viso. È in preda ad una sorta di illusione onirica, al limite tra lucidità e delirio, quando parla con il ricordo di Michele (Vincenzo Bocciarelli), un giovane intellettuale antifascista, quasi fosse un fantasma. Proprio quel Michele che aveva accolto le due donne tempo prima nella casa del padre Filippo tra i monti della Ciociaria ed era morto, poco dopo, per mano di un gruppo di soldati tedeschi in ritirata con l’arrivo degli alleati, sbarcati ad Anzio. 

Così come è apparso, Michele scompare nel buio del palcoscenico e, da questo momento in poi, Cesira fa rivivere allo spettatore, quasi in un flashback, tutte le vicende che l’hanno portata fino a lì e che hanno reso così diversa sua figlia Rosetta. 

I momenti di maggiore pathos 

Ha una forte carica emotiva soprattutto il monologo del giovane Michele, in cui si nota tutta l’ispirazione di Ruccello al pensiero pasoliniano. Si tratta di una critica al regime fascista di quegli anni, ma anche di una critica verso tutti coloro che continuavano a vivere la propria vita, facendo finta di non notare le crudeltà realizzate da fascisti e nazisti: «siete tutti morti, siamo tutti morti e crediamo di essere vivi, […] soltanto il giorno in cui ci accorgeremo di essere morti, stramorti, putrefatti, decomposti e che puzziamo di cadavere lontano un miglio, soltanto allora cominceremo ad essere appena appena vivi». 

Degne di nota sono anche le modalità con cui viene rappresentata la violenza subìta da Rosetta, da parte del gruppo di soldati marocchini al servizio dell’esercito francese. In particolare, l’urlo della madre Cesira, che rimane fermo e bloccato, nel buio improvviso che avvolge il teatro, in una smorfia di dolore. Un dolore che viene percepito direttamente dal pubblico e che aleggia sul palcoscenico per tutta la durata dello spettacolo, fino a sciogliersi nell’abbraccio finale tra madre e figlia, una vera e propria catarsi sulle note di “Voglio vivere così”. 

Fonte immagine: locandina e scattate in loco

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