Venerdì 3 e sabato 4 febbraio Erri De Luca riempie il teatro Bolivar di rose e di gente, attraverso l’immenso potere comunicativo della poesia. Il teatro (diretto da Nu’Tracks) ospita le uniche due date in Campania de Le rose di Sarajevo. Lo scrittore è accompagnato sul palco dal suo amico e fratello Cosimo Damiano Damato e dalla Minuscola Orchestra Balcanica di Giovanni Seneca con Anissa Gouizi e Gabriele Pesaresi. I tre corpi – Erri, Cosimo e l’orchestra – si trasformano in arti di uno stesso scheletro, con il fine di restituire una figura intera: quella del poeta Izet Sarajlić, cantore di Sarajevo e testimone della tragedia della Bosnia. Il vulnus di quello che è stato ricordato come il più lungo assedio del Novecento europeo, viene ricucito per mezzo della parola poetica, sutura e rimedio ancestrale per le anime sanguinanti.
Le rose di Sarajevo ha debuttato, con un sold out, al teatro delle Muse di Ancona, in apertura dell’Adriatico Mediterraneo Festival. De Luca e Damato hanno già raccontato insieme altre storie, per il cinema (Tu non c’eri), al teatro (Se i delfini venissero in aiuto) e in un libro (L’ora X, una storia di lotta continua). I due alleati vanno insieme in scena e fanno «il loro turno di notte per impedire l’arresto del cuore del mondo». Danno voce e restituiscono l’odore, la fisionomia interna e dolorante, nascosti dietro al carteggio di Lettere fraterne, che Erri e Izet (interpretato da Damato) si sono scambiati. È un epistolario che ha la potenza poetica dei carteggi dei grandi parolieri. A Giovanni Seneca (chitarra classica) , Anisa Gouzi (voce e percussioni) e Gabriele Pesaresi (contrabbasso) spetta il compito di ricreare le ambientazioni balcanico-Mediterranee, nelle quali quei pensieri d’amore, di guerra, di morte, ma anche di vita e di salvezza, hanno preso forma.
Nella cava di uno spazio teatrale, De Luca e Damato, come un cavaliere errante e il suo scudiero, intraprendono il folle viaggio sul sentiero del sentire, lungo il quale allucinazione e verità storica si incontrano
Le rose di Sarajevo non poteva non iniziare con un riferimento esplicito al Don Chisciotte. Erri De Luca e il suo compagno fraterno Cosimo Damiano Damato sembrano separati dalla nascita da questo personaggio che è il più grande cavaliere antieroico della storia. I due interpreti sono, infatti, eroi, combattenti stesi a terra nella trincea quotidiana, in un rapporto tellurico ed empatico con il mondo circostante. Sentono il male del reticolato sotto la propria pelle, che è uno strato solo apparente: «i poeti sono uomini che non hanno la pelle» – sentiamo sussurrare queste parole dalla docile voce di Cosimo, di fronte a un bicchiere di vino, in una piccola osteria di Materdei, appena dopo lo spettacolo -, ma hanno mani per scrivere. Viene in mente subito una delle frasi che Erri De Luca ha pronunciato durante la messinscena, confidando con tenera timidezza al pubblico-amico, di non saper parlare, e soprattutto chiedere, ma di essere in grado solo di fare lavori manuali e, difatti, pure scrivere è un mestiere che si fa con le mani. Cosimo si esprime come se il suo pensiero fosse il naturale prolungamento di quello di quello di Erri, e viceversa. I due, sul palco, sono complementari, e vincono la guerra, denunciandone l’inutilità, rovesciandone il senso. La annientano a colpi di rime, superano l’impossibilità di dire, di raccontare, creano un vuoto spazio-temporale, nel quale si interrompe la coazione a ripetere, tipica del trauma, che ogni conflitto porta con sé.
Prima ancora di iniziare la lettura vera e propria dello scambio epistolare tra il poeta napoletano e quello di Sarajevo, ma, più genericamente, tra poeti e poeti – persone accumunate da un linguaggio affine, da un’esigenza intestina –, Erri fa una premessa: «non esistono cause, ma solo effetti». Sarajevo e le sue rose sono l’esempio lampante di un evento che non ha alcuna causa, ma numerosissimi effetti. Tra questi sicuramente c’è quello di dover necessariamente imparare a vivere in emergenza, anestetizzando il sentire, annebbiando la coscienza razionale, che altrimenti si esprimerebbe in consapevolezza di nulla, dell’insignificanza, della gratuità della violenza e, in conseguente disperazione.
Erri De Luca, in una missiva indirizzata ad Izet, nella quale è possibile ritrovare un conforto amico per la perdita della sorella, afferma che «i traduttori – la sorella di Izet era una traduttrice – sono persone istruite che consentono la comunicazione tra popoli estranei», i quali si considerano vicendevolmente analfabeti. Anche Cosimo e Erri, in quanto poeti, traducono, o meglio, decifrano quello che è un idioma interno, non grafico, ma sanguigno, pulsionale. Chisciottianamente si rialzano dalle macerie, si scrollano di dosso polvere e fango, e si scagliano ancora oggi contro altri giganti, che sembrano mulini, ma sono in realtà terrificanti mostri: i naufragi sulle coste libiche, l’attuale guerra in Ucraina, il pensiero becero di chi trasforma in prodotto il gesto poetico.
In una delle letture colpisce l’affermazione: «oggi i libri non hanno più un lieto fine, le storie muoiono per asfissia». Altro che rose, le rose sono buchi di granate, che forano il terreno, come i segni grafici che ogni città lascia sulla fronte di tutti gli abitanti che vi risiedono, anche sul più piccolo, sulla più insignificante forma di vita. A Izet, il cantore delle rose di Sarajevo, dalla sua terra madre, è toccato in sorte un verbo: stringi, che Erri, nel suo immaginario poetico, ha trasfigurato in un sorriso: quello beffardo che l’amico-poeta usava come scudo contro la malora, in cui il suo paese stava cadendo.
Ne Le rose di Sarajevo sono le parole, in particolare i verbi, ad essere protagonisti della conversazione umana e letteraria tra Damato ed Erri. «Fine pena mai»: era il destino che affliggeva i prigionieri di guerra, a loro non era concesso alcun altro tempo verbale: né la grazia del presente, né l’imprevedibilità del futuro, solo infiniti, un eterno ritorno. Si trattava di un viaggio senza scopo alcuno, come quello del cavaliere della Mancia, «il nemico più accanito dell’evidenza, il famigerato nemico della rassegnazione». I prigionieri, incastrati in un non-tempo, nel gioco infinito delle mura sempre uguali a se stesse, che non proiettano alcuna ombra, oltre la loro, diventano i custodi più preziosi della memoria.
Se è vero che la memoria è ingannevole, che è debole e ingiusta, e che trattiene quello che vuole, quella dei rinchiusi viene sottoposta a una forma perversa di costrizione, e diviene come un obiettivo che si focalizza sempre sulla medesima immagine (effetto-trauma). Di qui emerge l’urgenza di ribellione, che si traduce in sovrimpressioni del reale, in forme di iper-percezione delle cose. La memoria compie, dunque, la sua rivolta, non distruggendo se stessa, ma trasferendo la sua origine dalla mente al cuore, si trasforma così in sintomo, in sensazione, in emozioni da dover tirare fuori. Esattamente questo è quello che Izet ha tentato di fare – e con lui Damato e De Luca, che ne ripercorrono il vissuto e ce ne restituiscono le sequenze sfocate, frammentarie, ma vere -: prendere familiarità con la sua figura proiettata sulle pareti di una cella (metaforica e reale).
Izet scrive poesie minimali, dedicate alla donna amata, le dona rose di congedo: «nel mondo due miliardi di donne, nessuna tu». Racconta come la sola presenza dell’amata riesce a far mutare il cemento in prato, a portare calore nel chiuso umido del carcere. Diventa lieto il dolore di fronte all’amore, e la libertà non è più un’illusione, se il cuore canta, se l’uomo trova la sua forma personalissima di reazione. La pelle dei poeti diventa squame, può andare sott’acqua, diventa un’armatura, può schivare i colpi mortali.
Ante Zemljar era comandante dei partigiani, caro amico di Erri, imprigionato dal regime di Tito, che rinchiuse dissidenti politici e avversari. Ante era nemico di tutti, della comunità, dello Stato che la rappresentava. Erri De Luca lo fa rivivere attraverso la lettura dei versi che ha scelto di dedicargli. La poesia, come una rosa, converte il rosso-sangue in rosso-sole, in fuoco d’amore. Ante gioca con la punta dell’unghia a muovere un nodo nel legno, finché il nodo non cede, e tra le sbarre filtra la luce del sole, un piccolissimo spiraglio di luce, che d’improvviso si fa pozza d’acqua sul pavimento della cella, e Ante ci inzuppa i piedi, ci saltella.
Forse la poesia è anche una pozzanghera, che si forma a terra, involontaria e piena, specchio di chi sta sopra e le passa accanto. Gianmaria Testa cantava, in una canzone dedicata proprio a Erri (18 mila giorni, eseguita egregiamente dall’orchestra balcanica), che ci sono stati «giorni così bianchi di parole accese»: ecco, queste sono le rose, questa è la bellezza nascosta dentro una cerchio d’acqua sporca, che giace a terra indisturbato, suscitando la curiosità di quei pochi, che si bagnano, gettandovisi con tutte le scarpe.
I due fratelli di penna, sotto la supervisione silenziosa e fantasmatica del caro Don Chisciotte, si incontrano sul palco di un teatro-resistente, per infracidarsi insieme nella melma, in cui si mescolano la lordura delle strettoie, scavate nella roccia per entrare illecitamente in Bosnia, il sudiciume delle carceri, il puzzo dei cadaveri, ma pure per indossare le vesti responsabili dei sopravvissuti, per addossarsi non il senso di colpa, ma il dovere, la lealtà e l’impegno civile. Il Bolivar ospita, per sole due sere, i più fedeli amanti, gli spiriti più sognanti, eppure i più ancorati alla precarietà della Terra.
Ante aveva trovato una sua strategia per spaccare pietre, e, durante la pena che era costretto a scontare, come Sisifo, era riuscito a immaginarsi felice. Dalle pietre, distruggendole, potevano schizzare fuori scintille. Le scintille gli restituivano la vita, il senso, lo scopo. Erri De Luca, insieme a Damato e a un’orchestra minuscola, ma musicalmente gigantesca, sono riusciti con Le rose di Sarajevo a farci sentire, per una serata, come il mare: semplicemente vulnerabili, in piena e in moto, in quiete e in stasi, limpidi e puri, tuttavia, periodicamente, inospitali.
I libri muoiono, come gli esseri umani, ma sempre valgono meno di noi. Così, forse, possiamo sopravvivere solo poetando o in marcia, in direzione di un universo bizzarro e allucinato, che non differisce, però, molto dal nostro.