Lello Marangio, intervista all’autore.
Marangio, Bergson disse che «al di fuori di ciò che è propriamente umano, non vi è nulla di comico». Lei è d’accordo?
Da oltre trent’anni scrive per il teatro, il cinema, la televisione. In base alla sua esperienza, cos’è che suscita maggiormente il riso?
La sorpresa, l’imprevisto, una risposta che spiazza, una situazione anomala a metà fra il reale e il surreale. Il contrasto fra l’alto e il basso, fra il congruo e l’incongruo. Gli accostamenti che non ti aspetti, anche il solo suono di certe parole, certi aggettivi fanno ridere. I gesti inconsulti, i movimenti strani, le parole fuori luogo. Come dicevo prima, tutto può far scattare una risata. L’importante è che riesca a stupire.
Oggi, le forme di comunicazione e dell’espressività artistica sono nuove e sempre più molteplici. Esistono, dunque, molteplici forme del comico per diversi canali di trasmissione? Cosa differenzia, ad esempio, la comicità teatrale da quella televisiva?
La comicità nasce teatrale: l’antica ma sempre moderna Commedia dell’Arte era teatro itinerante. I grandi comici del passato si formavano sulle tavole del palcoscenico. A parte il già citato Antonio De Curtis, personaggi immortali come Peppino De Filippo, Alberto Sordi, Aldo Fabrizi, hanno iniziato la loro carriera così. Successivamente hanno utilizzato anche la televisione e il cinema per farsi conoscere di più. Ma in teatro il comico non ha nessuna rete che lo protegge: o fai ridere o non fai ridere. E il pubblico se ne accorge, sempre. Se sei un bravo comico in teatro, lo sei ancor di più in televisione, ma certi comici che hanno successo in televisione e credono di essere arrivati sbagliano. La comicità televisiva oggi è confusa con il tormentone, con la ripetitività, invece anche quella bisogna farla bene, come l’hanno fatta per anni artisti come Raimondo Vianello e Renzo Arbore solo per citarne qualcuno.
Nel 2019 ha pubblicato Al mio segnale scatenate l’infermo, in cui affronta la disabilità in maniera comica. Non può esistere Umorismo senza una riflessione sottintesa ma profonda sulla tragicità di alcuni aspetti dell’esistenza?
No. L’umorismo è in tutte le cose che ci circondano. L’umorismo è un codice, un cifrario che per funzionare bene bisogna saperlo usare bene. Con quel libro io, credo per la prima volta, ho abbinato la disabilità all’umorismo, due cose che sembrano non coniugabili fra di loro. E invece il loro contrasto ha fatto da detonatore per l’uscita di un libro di grosso impegno sociale e di grande comicità. Con “Al mio segnale scatenate l’infermo” è uscita fuori una buona riflessione comica sulla tragicità di una condizione di vita sicuramente non bella, e cioè la disabilità.
Un uomo che di mestiere “fa ridere” gli altri, di cosa ride?
Rido di tante cose, specialmente dal contenuto surreale della comicità sia scritta che parlata, che quando è fatta bene porta con sé una efficacia enorme. Mi fa ridere l’imprevedibilità delle cose dette dal comico, le sue movenze e la sua figura. Secondo me, è fondamentale che il comico abbia un suo stile, una sua cifra, una sua faccia, un modo di porsi sulla scena o davanti alle telecamere. Non rido delle forzature e di chi crede di essere comico perché semmai lo ha deciso lui. I veri comici, da tempo, li incorona il pubblico, come è stato per l’unico inarrivabile dei nostri tempi, cioè Massimo Troisi, che in tanti hanno tentato inutilmente e vigliaccamente di scimmiottare.
Grazie.