Uno spazio museale d’eccezione ospita Lettere a Bernini, che va in scena dal 10 al 16 aprile in un’ampia sala nel palazzo ex-Banco di Napoli, sede dal 2022 delle Gallerie d’Italia, nell’ambito della stagione del Teatro di Napoli. Il pubblico prende posto nell’atelier dell’artista, Gian Lorenzo Bernini che, tra impalcature, casse di legno e drappi color vermiglio, si presenta in felpa larga e consumata, pantaloni scuri e scarpe da lavoro, come fosse un’artista contemporaneo. La tensione iniziale si scioglie quando Marco Cacciola, che interpreta Bernini, manovrando il carrello elevatore al centro della scena, depone il blocco di marmo, con un gesto evocativo: sarà la materia a prendere la parola.
Uno e centomila Bernini
In scena c’è solo lui, il Bernino, come fu soprannominato l’artista di origini napoletane, che deve però alla città di Roma la sua fama di scultore dei papi. Un monologo che tratteggia il profilo di un’artista vulnerabile, ma impulsivo e incline a scatti d’ira, il cui ego è ferito da una donna, Francesca Bresciani, fine intagliatrice e decoratrice che ha lavorato con lui e pretende di essere pagata la stessa cifra pattuita all’inizio della loro collaborazione.
L’ego di Bernini è ferito soprattutto dalle lettere dei cardinali, che si schierano dalla parte della donna, provocando la collera del protagonista, che svela in queste occasioni un istintivo dialetto napoletano. Un uomo di potere anch’egli, non distante da chi tiene sotto il giogo la sua arte e che, se la prende prima coi modelli che posano nel suo studio e poi si scaglia contro l’odiato (o amato?) rivale: Francesco Borromini.
Uno e centomila sono i Bernini che si celano dietro il volto dell’attore, il cui monologo suggerisce un continuo slittamento di prospettiva che vede l’alternarsi della prima persona alla terza, in dialogo con sé stesso e con il pubblico, che esplora e studia il genio dell’artista.
Il Borromini di Lettere a Bernini: eterno amico | eterno rivale
«In realtà – spiega Martinelli in un’intervista – è cominciato tutto proprio da Borromini. Nel 2015 Ermanna Montanari e io siamo entrati per la prima volta nella Chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane di Roma. Siamo rimasti tramortiti dalla meraviglia. Da quel momento ho desiderato entrare sempre di più nella vita del genio ticinese. Ma più sprofondavo e più mi trovavo accanto il suo rivale, Bernini appunto.»
Cupo e solitario. È così che viene descritto l’artista ticinese, o ‘il longobardo’ come lo chiama lui, il Bernino, inviso al potere e amato da tutti. La verità che emerge da questa lettura della storia è che Borromini non era soltanto un rivale per Bernini, anzi in questo vi proiettava le proprie paure e difficoltà. Ecco allora che la solitudine e la difficoltà nel piegarsi alle richieste dei potenti, accomunano i due, ma sono proprie di ogni artista, in ogni tempo.
«Mi ammazzavo di lavoro, sì. Ma se non ti ammazzi. Se non ti ammazzi, domando io, come fai a farle splendere, le cose? E la Luce divina? La Luce che buca le tenebre, la carne che grida nei quadri di Caravaggio, come ci arrivi a quella, se non facendoti male?» Così si interroga il Bernino, in una profonda autoanalisi che lo porta a riflettere sul valore del sacrificio, e sull’amore per l’arte che è il motore della sua vita. Un amore tormentato, quello che lo lascia infine sgomento, giacere sul blocco di marmo al centro del suo studio e tra le sue opere.
«Hoc theatrum, hic labor est», la frase che ad un certo punto si intreccia alle immagini proiettate in bianco e nero sul fondo, ci ricorda che il teatro, come l’arte e la vita, richiedono sacrificio e fatica, per riemergere sempre ed ogni volta dalle tenebre, attraverso la luce.
Fonte Immagine: Teatro delle Albe