Mare di ruggine. La favola dell’Ilva di Antimo Casertano arriva al Piccolo Bellini dal 26 settembre al 6 ottobre. La favola dell’Ilva si trasforma in un film distopico, in cui ogni esercizio dei propri diritti ha come rovescio l’apertura di uno scenario orrorifico e aberrante. Il diritto al lavoro – che, prima ancora che nella nostra Costituzione, rientra nei Diritti Umani – assume un aspetto mortifero ne La favola dell’Ilva.
Gli attori in scena – Daniela Ioia, Ciro Esposito, Francesca De Nicolais, Luigi Credendino, Gianluca Vesce, Lucienne Perreca, Antimo Casertano – dimostrano, sin dall’apertura del sipario, di non aver bisogno dei riflettori puntati, è sufficiente la bocca rossa del mostro di ruggine, la luce del forno ad illuminarli.
Il testo Mare di ruggine. La favola dell’Ilva è vincitore del Premio Nuove Sensibilità 2.0 2022, Premio Fersen, Premio Antonio Conti di Pesaro, Premio Speciale Felicetta Confessore – ritratti di territorio Progetto e finalista al Premio Tuttoteatro.com alle arti sceniche Dante Cappelletti. A nessuno dei protagonisti reali della storia vera è stato, però, dato un premio.
Mare di ruggine. La favola dell’Ilva è per uomini d’acciaio che hanno imbastito le loro vite cucendosi addosso il futuro. Forse si meritavano un futuro diverso…
Mare di ruggine. La favola dell’Ilva è la storia di una favola, una favola senza lieto fine, forse senza neppure un finale, se si considera le attuali condizioni di Bagnoli e la totale indifferenza di fronte a un territorio che è stato trasformato in una discarica.
Lo spettacolo si apre con il ruggito di un mostro: lo stabilimento siderurgico di Bagnoli, ex Ilva e poi Italsider, dismesso solo nel 1994. L’ex area industriale di Bagnoli ancora subisce i danni ambientali del grande mostro di ruggine che tanti bambini erano costretti ad osservare affacciandosi alla finestra. Insieme al mostro, però, di fronte agli occhi si apriva anche uno squarcio di mare.
La favola dell’Ilva ha le sue radici a Bagnoli, ma pure a Genova, a Taranto e a Piombino. I figli di quelle generazioni se si incontrano si riconoscono. Negli occhi hanno «l’azzurro mare» con qualche venatura d’acciaio.
Antimo Casertano ci racconta una favola di eroi del quotidiano, una storia che è andata avanti per cinque generazioni. La messinscena ha un enorme potenza visiva, il sipario si apre su una scenografia cinematografica, con il forno in prima linea, pronto a spalancare la sua bocca per inghiottire vite umane.
Nato nel 1905, coetaneo dello stabilimento, Nunzio è il primo della generazione ad entrare nella bocca del mostro. La favola è la sede magica delle verità non accessibili, ed ecco che ci troviamo di fronte al primo eroe protagonista che, però, non viene salvato da nessuna fata madrina e neppure un’abile sarta è in grado di rattoppare la grande voragine che gli si è aperta nel petto.
Appuntamento alle sette per il colloquio di lavoro, alle sei già ci si ritrova fuori dalla fabbrica, in fila in attesa del proprio turno. Poche domande a cui rispondere, ma precise, mirate. «Cognome e nome, che giornale leggete, cosa è per voi l’Unità, rosso o nero». Le risposte sono semplici, suggerite dai compagni operai: «Brandi Nunzio, leggo il Corriere dello sportivo, L’Unità è un insieme di persone, seguo il partito di Casa, né rosso, né nero, ma azzurro mare». Fisso è la parola d’ordine: lavoro fisso, contratto fisso. Per vivere una vita dignitosa, mettere su una famiglia, bando alle ciance, la fabbrica è l’unica alternativa.
Mare di ruggine. La favola dell’Ilva è la storia di un’epoca, rossa di fuoco, nera di fumo.
Gli attori in scena non hanno il tempo di respirare, non possono prendere fiato, tante sono le cose che hanno da raccontare. La favola dell’Ilva è una storia senza ossigeno, dove il mare fa da sfondo, ma ha dichiarato anch’esso la sua resa.
Gli operai della fabbrica guardano al mostro come una luce, un’enorme possibilità per rivoluzionare la propria misera vita, ma non sono al corrente della sua pericolosità. Il ritmo è incalzante, la catena di montaggio del cantiere è scandita con dei gesti reiterativi e compiuti a canone. Il suono è ferroso, netto, grave, pesa sui muscoli e riverbera nei polmoni, si insinua nel corpo e confonde i pensieri e le idee. Il meccanismo di produzione disumanizza e insozza, è una grande macchia che si espande, è un cancro.
Sul palco del Piccolo Bellini gli attori non hanno bisogno di nessun accompagnamento musicale, perché il mostro è una grande cassa dritta, la sua forte risonanza fa tremare le poltrone della sala. Mare di ruggine. La favola dell’Ilva è un’esperienza sensoriale, totale, come quella che si fa seduti al cinema, come quando si entra in una grande fabbrica. L’una e l’altra sede hanno in comune l’effetto totalizzante, invadente, disturbante, con la differenza sostanziale che la prima è vivificante, la seconda mortifera.
La compagnia Teatro Insania ha messo in scena uno spettacolo di resistenza, ha ridato voce ai movimenti di lotta operaia, ci ha dato accesso a un passato che neanche nei libri è stato mai raccontato. La “piccola storia” dell’Ilva è un capitolo sostanziale della Grande Storia, è il plot su cui è stato ricamato il futuro, rammendando abiti già scuciti, lisi, ormai inutilizzabili.
Le tute da operai nel corso degli anni sono state ripensate con grande stile, anche queste hanno subito il fascino della modernizzazione, del tanto decantato progresso: i dipendenti dell’Italsider andavano al lavoro con indosso caschi da astronauti, ma nelle loro brevi vite, spezzate dalla malattia, non gli è mai stato concesso di vedere le stelle. Nella forma di una patata hanno per lungo tempo immaginato la luna. Sono stati eroi dell’illusione e della manodopera.
Mare di ruggine. La favola dell’Ilva crea un lungo stato di trans, come se una macchina del tempo ci facesse ripercorrere cinquant’anni di storia. I bombardamenti della Seconda guerra mondiale ci fanno sobbalzare i culi dalle sedie. Forse dovevamo alzarci in piedi tempo fa, invece di assistere agli eventi da casa, comodamente seduti sulla nostra poltrona.
Di fronte a Mare di ruggine. La favola dell’Ilva ci risvegliamo da un lungo sonno e ci accorgiamo che lo stabilimento è stato chiuso, smantellato, ma al governo c’è ancora qualcuno pronto a fare a patti con i nuovi mostri e per i bambini che si affacciano oggi alla finestra, lo scenario non è cambiato. Le bombe ci sono ancora, l’ossigeno anche manca, il mare è un miraggio che pure stanno privatizzando.
Antonio Gramsci diceva: «Odio gli indifferenti. Vivere significa partecipare». Con Mare di ruggine. La favola dell’Ilva la compagnia Teatro Insania partecipa attivamente alla lotta, dichiarando a piena voce che l’arte è politica.
fonte foto di copertina: ufficio stampa