Muratori al Piccolo Bellini | Recensione

Muratori

Muratori di Edoardo Erba arriva al Piccolo Bellini dal 17 ottobre al 5 novembre. La celebre commedia ritorna in scena per la regia di Peppe Miale, per la prima volta in lingua napoletana.

Massimo De Matteo, Francesco Procopio, Angela De Matteo interpretano i tre protagonisti, ognuno con una propria particolare sensibilità, con un proprio approccio alla vita, ora concreto e rozzo, ora innocente e sognante. Il trio riesce a risvegliare abilmente l’amore per la rappresentazione teatrale, confondendo realtà e messinscena, sogno e vita vera, allucinazione e fantasia, metadiegesi e scene di routine.

Muratori si, ma contro i muri. Lavoratori manuali, ma con i pensieri tra le nuvole o in vecchie drammaturgie polverose

In Muratori, Fiore e Germano sono due lavoratori che stanno provando a mettere su un’impresa, un ambizioso progetto, «mica una stronzata», come tiene a sottolineare Fiore. È notte fonda e i due amici entrano di soppiatto in teatro, Germano dei due è il più impacciato, Fiore il più duro e il più determinato.

Il sipario è ancora semichiuso, nell’oscurità, da lontano, sentiamo vociferare, i due stanno bisticciando. Le voci fuori campo già tradiscono il gusto squisitamente cinematografico che la commedia, in alcuni momenti, inaspettatamente rivela.

Germano non fa altro che lamentarsi: è buio, fa freddo, e lui «c’ha pure la tosse da quando ha smesso di fumare». Fiore non demorde, lo sprona, con quella severità burbera ma docile, che caratterizza ogni buon uomo napoletano, che ha dedicato la vita al lavoro, per guadagnarsi un pezzo di pane.

La prima parte di Muratori è un autentico spasso: Fiore e Germano sono impegnati nella costruzione di un grande muro, che avrebbe lo scopo di delimitare l’area del palcoscenico. Il proprietario del grande supermercato, che è situato nella stessa struttura del teatro, ha avanzato la pretesa di voler estendere le dimensioni della sua attività commerciale, realizzando un magazzino proprio sul palco della sala.

Il lavoro è ovviamente frutto di un’iniziativa illegale, e i due poveri muratori, convinti di poter compiere la loro scalata sociale, si prestano a un tale scempio, pur di racimolare qualche soldino, per mettere su la loro grande impresa di spurgo, con annesso acquisto di furgone. Già riescono a vedersi davanti agli occhi l’insegna: Fiore e Germano spurgo.

Sarebbe un sogno riuscire a lavorare in proprio, e Germano già si immagina nella sua «Mercede» nuova di zecca, sebbene Fiore si diverta, sempre cinicamente, a riportarlo con i piedi per terra: «prima o poi dovrai uscirci dalla Mercede, e, da come sarai vestito, tutti noteranno che si semp ‘nu pezzente».

Durante le interminabili ore di fatica, Germano scarica i mattoni dal «trerrote», Fiore li stabilisce con forza l’uno sull’altro, prende le misure e, se necessario, li taglia, ne modella le dimensioni. I due muratori si dedicano a quello che meglio sanno fare: costruire muri.

Fiore sembra essere profondamente soddisfatto: sebbene si tratti di un lavoro notturno, che deve svolgere in silenzio e di nascosto, lontano da occhi indiscreti e, soprattutto da quelli delle «guardie», non perde neanche per un istante la propria fierezza. Da ogni angolo della sua possente muscolatura, spruzza energia e mascolinità, al pubblico pare di avvertirne persino l’odore, un misto tra sudore e calcinaccio.

Germano è, invece, meno convinto, non ha ancora capito di trovarsi in un teatro, non sa bene cosa ci sta a fare lì. Dapprima scambia il sipario per una grande tenda blu, nella sua ingenua ignoranza, si domanda perché il palco sia rialzato rispetto alla sala. Germano indossa il “tutone” e le scarpe da ginnastica, non è per niente “fisicato”, ed è molto imbranato.

Muratori, a prima impressione, ricorda una gag. I due si muovono sulla scena, ballando, beffeggiandosi l’uno dell’altro, cadendo per rialzarsi più intontiti di prima: Fiore e Germano sembrano essere cresciuti guardando Charlie Chaplin e Fantozzi.

D’improvviso, però, tra un mattone e l’altro, mentre Fiore è scappato via – armato con tanto di scopa – per fare fuori una “zoccola”, dopo aver avvertito dei rumori sospetti, Germano resta solo. La scena è ora tutta sua, o quasi.

Ecco che, tra i muratori, appare un angelo, una donna, che di più belle non ne aveva mai viste in vita sua. È Giulia, una dolce e smarrita fanciulla, in fuga da un uomo che l’ha fatta soffrire. Germano è confuso, sgrana gli occhi, incredulo, ma Giulia lo travolge e, in preda alla follia e alla passione amorosa, lo invita a fuggire via con lei.

Come dice Germano, «a teatro le parole volano via, al punto che è difficile afferrarle, si mescolano e si confondono, chissà come fanno gli attori a ricordale», mentre i mattoni, quelli si, che una volta fissati a terra, non si muovono. Un muro, fatto bene, può durare pure mille anni, i pensieri, invece, dove vanno a finire?

La vita vera dei due muratori, però, non può mai bastare a se stessa, ed è proprio quando l’esistenza rende infelici, che corre in soccorso l’immaginazione. Fiore e Gemano, in apparenza molto simili, sono, invece, assai diversi. Le loro umili origini, la loro condizione lavorativa, il loro linguaggio li accomuna, sono complici e reciprocamente necessari, come fratelli.

In Muratori, se Fiore incarna la figura del duro, dell’indomito, emarginato, incompreso, eroe del quotidiano. Germano si sente un perdente, una vittima delle circostanze, è un uomo solo, a cui non resta che la fotografia della nonna, nascosta nel portafoglio, una nonna che pesa un quintale, e che non entra neppure nel quadretto.

Perseguitato dalla sfiga, e ormai disilluso, quella notte, però, assiste al compiersi di un miracolo. È un’epifania, che si tratti di una donna in carne e ossa o di un fantasma dell’immaginazione, questo non conta. Giulia – o sarebbe meglio chiamarla La signorina Julie – , forse, è un’attrice, o un’apparizione in un sogno troppo vivido per non sembrare vero, «come quando ti trovi sull’autostrada, e sei insonnolito, e credi che di fronte a te, in lontananza, ci sia il mare, invece è asfalto».

Germano, attraverso gli occhi di Giulia, riesce finalmente a guardarsi. Si sente, per la prima volta, se stesso, profondo e agitato come il mare. La bellezza di Giulia ha riacceso in lui un desiderio di magia, un bisogno d’altrove, e quale luogo si presta meglio del teatro per dar vita a «quello che non c’è».

La presenza/assenza di una donna non può che generare fraintendimenti e incomprensioni tra i due muratori. Fiore afferma con certezza che mai un uomo come Germano potrebbe aver incontrato una donna come quella che gli ha descritto.

I mattoni hanno una sola forma, e questa non cambia nel tempo, allo stesso modo, un rozzo è un rozzo, un mero plebeo, e non può scappare via con una creatura piena di grazia e saggezza.

«Quando un mattone si frantuma, altro non resta che polvere». Germano non è abbastanza audace per portare a termine un progetto, si perde dietro vagheggiamenti, è affascinato dal pulviscolo dei sogni, accecato dal bagliore effimero delle luci dello spettacolo.

Il teatro in Muratori si fa persona, e donna, scatena timore, perdizione, smarrimento, ma è anche illuminazione, presa di coscienza della propria condizione, bramosia e passione, voglia di cambiamento, di rivoluzione.

Fiore e Germano, l’uno arrabbiato e desideroso di rivalsa, l’altro buffo e malconcio, scoprono di avere un’anima simile.

Anche Fiore cade nella trappola, rimane incastrato tra le tegole del palcoscenico, impigliato nel sipario e, insieme, inconsapevoli di ciò che fanno, mettono su una grandissima, comica e realistica, malinconica e immaginosa, commedia sognante.

Da bravi muratori, operosi e instancabili, rendono omaggio al teatro. La loro è un’opera di costruzione esterna e di decostruzione interna. Il muro che abbattono è quello del pregiudizio, e dell’ignoranza, quella barriera che il mondo mercificato e capitalista ha costruito, per ostacolare ogni forma di espressione artistica.

Siano lodati i muratori, che conservano l’ingenuità e quella visione semplice delle cose, che gli consente ancora di lasciarsi stupire, cosicché la materia possa trasformarsi in meraviglia.

 

Di Edoardo Erba, con Massimo De Matteo, Francesco Procopio, Angela De Matteo, regia Peppe Miale, costumi Alessandra Gaudioso, scene Luigi Ferrigno, musiche Floriano Bocchino, luci Salvatore Palladino, aiuto regia Giordano Bassetti, assistente scenografo Sara Palmieri, assistente alla regia Roberta Rossi, Scala produzione Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro, si ringraziano Teatro Bellini, Théâtre de Poche.

Immagine di copertina: ufficio stampa

A proposito di Chiara Aloia

Chiara Aloia nasce a Formia nel 1999. Laureata in Lettere moderne presso l’Università Federico II di Napoli, è attualmente studentessa di Filologia moderna.

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