Non plus ultras al Piccolo Bellini

Non plus ultras

Dall’8 al 10 novembre va in scena al Piccolo Bellini Non plus ultras, di Adriano Pantaleo e Gianni Spezzano. La drammaturgia e la regia sono di Gianni Spezzano, lo spettacolo è con Adriano Pantaleo, unico e instancabile interprete di più personaggi, tutti minuziosamente caratterizzati. La realizzazione della messinscena è stata possibile grazie al lavoro di coproduzione Argot produzioni, Teatro Eliseo e Nest.

Dopo un’attenta indagine teatrale durata ben quattro anni, i drammaturghi sono stati in grado di ricostruire, in forma inedita e sapientemente ironica, il modello di vita degli Ultras, permettendoci di entrare nella loro mentalità.

Non plus ultras viola le regole e supera le colonne d’Ercole, ci insegna ad andare oltre ogni pregiudizio umano

Le scene, a cura di Vincenzo Leone, ci portano a sedere sugli spalti, a prendere parte a quel fragore, a quell’impeto di ribellione, che caratterizza da più generazioni il mondo degli Ultras. Inizia la partita e la voce del telecronista sportivo desta subito l’attenzione sulle minime azioni di ogni giocatore. Ciro guarda ora da lontano quel microcosmo di devozione, emozioni passionali ed istinti viscerali. Il protagonista è il receptionist di un albergo di lusso, la statura piccola e la divisa da fattorino – che ricordano favolisticamente quelle dello schiaccianoci – dissimulano l’audacia e la determinazione di un personaggio estremamente reazionario. Il comico scoppia da questo cortocircuito che si crea tra la sua figura perfettamente composta e ordinaria, dai modi cordiali e dal sorriso confezionato, e l’animale da stadio che si nasconde sotto la giacca,  che è letteralmente il suo rovescio.

Ciro è un lavoratore pienamente cosciente della sua condizione di subalternità in un sistema che ci vuole tutti esattamente omologati, macchine di produzione, lacchè dei padroni, servi sudici del consumo e del denaro. Il giovane è, però, uno scaltro, un “profilo fake” di ben adattato: cambia mestiere in base alle sue esigenze e al suo tornaconto, gioca in casa dei potenti, ma con una strategia infallibile, che gli permette di mantenere intatte ed infrangibili la sua dignità e integrità.

Il risveglio definitivo avviene in seguito a un’apparizione: l’incantevole Susanna. Se c’è una cosa sulla quale non è disposto ad accontentarsi, è la scelta della donna da avere al suo fianco. Questa deve rispettare dei canoni precisi: è necessario, innanzitutto, che l’eletta sia bella e intelligente, ma non di quella bellezza standardizzata, come comunemente si intende. Tette e culo prosperosi: sulle tette è disposto anche a fare uno sconto, ma sul culo non transige. Deve essere gentile, perché la gentilezza è sintomo di intelligenza, solo gli stupidi sono scostumati. Insomma Susanna è quella giusta, l’hostess sexy in tailleur è riuscita a conquistare il suo cuore, per lei è disposto a tentare il tutto per tutto, a mettere a rischio la propria incolumità, è pronto a diventare un vero Ultras.

Adriano Pantaleo comincia così in Non plus ultras la sua corsa tra un manichino e l’altro, e, come un abile trasformista, dapprima indossa i panni di Susanna. La prescelta accende un fuoco nell’animo di Ciro, fa uscire fuori una rabbia che da tempo stava covando. Per uno scherzo fortuito del caso, lei è la figlia del temutissimo capo Ultras Biagio ‘O Mohicano. Primo obiettivo è dunque quello di farsi notare in curva, imparare ad essere molto più di un «tifoso occasionale», avere un’unica fede: la maglia. Ciro ambisce a ricevere l’investitura ufficiale di membro degli Ultras, alzando gli striscioni, dimostrandosi pronto a inveire contro i tifosi della squadra avversaria, e, se necessario, a colpirli. Abbracciare questa mentalità implica sentirsi parte di una famiglia, sacrificare quello che di più caro si ha per la collettività, che altro non è se non l’ultimo spiraglio di umanità che sopravvive tra valori ormai estinti: il senso di appartenenza, l’amore incondizionato per la propria terra, considerata una madre ancora in grado di generare frutti.

Ciro non è un semplice ragazzo che si avventura in un’esperienza nuova. Rappresenta colui che anarchicamente e audacemente sceglie di non categorizzarsi, di non lasciarsi etichettare come un comune impiegato che conduce una vita tranquilla e routinaria, né, al contrario, desidera essere additato come un sovversivo agitatore dell’ordine pubblico. L’anonimato è per lui la forma più autentica per rimanere fedele a se stesso. I lunghi e incisivi monologhi — che Adriano Pantaleo sembra buttare fuori tormentosamente da dentro, con un’urgenza immediata di rivelare verità per troppo tempo ignorate — sono boccate d’aria fresca per il pubblico in sala. Alle risate spontanee si alternano, così, momenti di autoanalisi e profonda riflessione. Quanta parte di responsabilità abbiamo noi in tutto questo? Il preconcetto è ormai elemento intrinseco al nostro giudizio critico?

L’attenzione si sposta a questo punto sul mondo calcistico, sulle dinamiche cancrenose e tossiche che lo corrodono dall’interno, sugli interessi economici che contaminano, sino ad annullarli, lo spirito stesso della competizione sportiva, l’attaccamento alla squadra come principio identitario, l’eredità di un affetto senza spazio e senza tempo. Ora le società investono sull’aspetto consumistico della partita: meglio che i tifosi restino a casa, sul divano, che paghino gli abbonamenti televisivi, che non si affezionino ai singoli calciatori, i quali altro non sono che merce di scambio da valutare in base a una performance e, ahimè, anche esteticamente.

Ciro assiste alla sua prima partita. Grazie a un “cugino”, ormai compagno storico degli Ultras, riesce a entrare nel gruppo, a conquistare la fiducia di quelli che più contano. L’attore principale – che non finisce mai di stupire gli spettatori – si esibisce egregiamente in altri ruoli, restituendoci  un ritratto lucido di quel contesto, dai più conosciuto sempre e solo “per sentito dire”. I personaggi-tipo passano dallo sfigato ingegnere informatico al donnaiolo “figo”, che approfitta delle trasferte per fare le sue conquiste e poi vantarsene con i “fratelli”. Tutti sono però accomunati da un unico amore: Napoli.

Cos’è davvero la libertà? Questa parola che alziamo come un vessillo, in prima fila nei cortei, sulle gradinate in curva o sul posto di lavoro appartiene all’umano? Essere liberi può combaciare in qualche modo con il sogno di onnipotenza, la bramosia perversa di superare ogni limite? E chi è che stabilisce questo limite, il sottile confine che separa ciò che è giusto da ciò che non lo è, che distingue il buono e il cattivo?

Forse su quest’ultimo interrogativo bisognerebbe soffermarsi. Siamo programmati per pensare alle cose e alle persone che ci circondano esclusivamente in maniera bipartita, inserendole necessariamente nel nostro inventario privato, in cui il male è sempre l’opposto del bene. Non plus ultras ci invita a pensare che, con maggiore probabilità, i “cattivi” potrebbero essere degli “ex buoni” un po’ incazzati o, semplicemente, stanchi di subire, che ognuno ha la sua croce e può liberamente scegliere come portarla. Così Ciro Esposito oggi rivive tra noi, sebbene sia ingiustamente morto da qualche anno.

Non plus ultras tradisce il suo stesso comandamento, ci insegna davvero ad andare oltre, e a non vergognarci di quello che siamo: contraddizione e rivolta concentrati in un corpo umano.

Immagine: Teatro Bellini

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A proposito di Chiara Aloia

Chiara Aloia nasce a Formia nel 1999. Laureata in Lettere moderne presso l’Università Federico II di Napoli, è attualmente studentessa di Filologia moderna.

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