OPEN HOUSE – Un’esposizione di HUMANA | Recensione

OPEN HOUSE - HUMANA

Il Collettivo BEstand, in coproduzione con Casa del Contemporaneo, presenta OPEN HOUSE – Un’esposizione di HUMANA a Sala Assoli il 1 luglio, con doppio spettacolo, alle ore 18.00 e alle 21.00. HUMANA – data analytics | trading | protection  – ci apre le porte di OPEN HOUSE, l’expo di PARS (Programma Avanzato di Ricerca Sociale). 

HUMANA nasce con l’obiettivo di rendere lo spazio del web più sicuro e monitorato, si propone come ausilio per orientarsi nell’universo dispersivo di Big data, dati biometrici, Social Networking, Deep Self, dei trend sociali e dei comportamenti individuali, che ne derivano. HUMANA crede nell’arte come strumento di sensibilizzazione e come occasione di recupero per le soggettività devianti o a rischio di comportamenti antisociali.

OPEN HOUSE è un Panopticon digitale, un’installazione performativa che nasce dalle suggestioni di A porte chiuse di Sartre.

Open House and open eyes: il Panopticon digitale diventa una scena circoscritta, una prigione in cui l’osservatore non è visto dalle persone osservate. Ecco che siamo costretti ad aprire gli occhi perché, in teatro, gli osservatori siamo noi. 

L’expo è un invito ad esplorare i case study, estratti da un database, ricostruendo la loro vita emersa e le loro storie occulte, dalle tracce lasciate sul web alle testimonianze dirette.

Lo spettacolo teatrale e multimediale è preceduto da una breve mostra itinerante, che ci consente di entrare nei camerini bui e psichedelici delle quinte del teatro, alla ricerca di Codici QR. Così, con il nostro cellulare, possiamo accedere ai dati personali delle tre attrici protagoniste, spiare i loro profili, scovare notizie del loro passato. 

Scrive Susan Sontag ne La coscienza imbrigliata al corpo: «si può trarre molto piacere dalla vita, una volta superata la nausea per la duplicazione». OPEN HOUSE ci propone uno spazio micro-cubico, illuminato da luci a led, nel quale siamo costretti a osservare il nostro doppio, o meglio, noi stessi e l’altro.

Tre sole attrici in scena (Simona Fredella, Rebecca Furfaro, Martina Carpino) si muovono come automi, girano la testa in maniera robotica,  il loro sguardo è sempre obliquo, laterale, hanno una visibilità parziale dell’intero, che garantisce ordine e linearità. Con le loro personalissime interpretazioni – dalle quali si evince un lavoro attento di autoanalisi  e indagine intimistica – tre donne sono in grado di trasportarci nel Panopticon infernale, che oggi è diventato lo strumento privilegiato di assoggettamento dell’intera umanità.

Come in A porte chiuse di J. P. Sartre, le tre sconosciute sono chiuse in uno spazio circoscritto, imprigionate nelle figura geometrica di un cubo, e paiono avere come unici osservatori lo schermo e il pubblico (ma loro non lo sanno). Sin dall’inizio le tre sembrano mosse da un comune intento, tacito ma condiviso, di colpirsi reciprocamente, rivolgendosi domande scomode e affermazioni taglienti. Non sappiamo se sono vive o morte, se sono reali o immaginarie, possiamo intuire che ci troviamo di fronte a delle proiezioni, a dei cloni, forse, a delle intelligenze artificiali, o semplicemente a delle figure disumanizzate dal crudele potere della realtà, i cui confini ormai non possono far altro che sfuggirci. È il loro smartphone a suggerirgli le domande da fare. Una alla volta si sottopongono a uno spietato interrogatorio, tramite il quale si presentano. Riusciamo a immaginare a grande linee chi sono: ci troviamo di fronte a comunissime ragazze, calate in questa realtà apparente che è il nostro secolo, con problematiche ordinarie, non troppo lontane dal quotidiano smarrimento che tutti subiamo. 

Enrica si è lasciata con Giulio, e lui se ne va in giro rinnegando di aver avuto una relazione con lei, lui la considera morta. Da bambina amava giocare all’ uomo nero con il fratello, ancora oggi è sicura che l’uomo nero non esiste, ma ammette che si sia imposto come una figura-simulacro nel suo immaginario infantile, fino a perseguitarla  anche nel mondo adulto.

Linda vede ovunque lo spettro della madre, sente ancora l’eco della sua voce: i suoi giudizi, i suoi rimproveri, i suoi consigli, solo in apparenza amorevoli, il suo gusto per l’estetica, la sua vanità. C’è bisogno che lei diventi perfetta almeno quanto la madre, che segua la sua scia, che si impegni per tenersi in forma, che eviti i carboidrati e si vesta in modo da mettere in risalto la sua altezza.

Carolina da adolescente amava le storie di vampiri. Leggeva Carmilla, la storia di una vampira: un ricca fanciulla affetta da melancholia, umore nero, bile, la malattia tipica degli uomini condannati a un’ipertrofia dell’immaginazione, spinti dal desiderio, ma il cui oggetto desiderato sempre gli sfugge. 

Nel chiuso della sala, le tre voci si alternano, come in brevi reels, ci raccontano ognuna qualcosa di sé: gli insuperabili traumi infantili, le paure nascoste, le prospettive precarie delle loro vite, che sono un perpetuo tentativo di costruzione, i disagi delle loro rispettive professioni. Le tre donne-vampiro, in OPEN HOUSE, paiono sibilare le loro inquietudini, risvegliare i mostri più spaventosi, i sogni irrealizzati, gli amori interrotti, i sensi di colpa mai placati. Noi partecipiamo come spettatori inosservati, nascosti al di là dello schermo, dominatori, ma anche noi, a nostra volta, fuori dal teatro, dominati.

Se è vero che ogni corpo si definisce nella lotta costante per resistere alla forza di gravità, al desiderio di sdraiarsi, di sprofondare, Enrica, Linda e Carolina non hanno bisogno di esercitare la propria volontà per restare erette. Loro fluttuano in un ambiente freddo, perché disumanizzante, ipnotico, perché tecnologizzato.  

In OPEN HOUSE, come nella vita vera, la realtà virtuale ha un effetto di alienazione, si basa sul presupposto di condurre il cervello a non poter compiere più un chiaro discernimento tra ciò che accade e ciò che si ha l’illusione che accada, tra il tangibile e l’astratto.

Allora le tre – bloccate nella meccanicità dei loro gesti, incapaci di un’eccessiva flessibilità del pensiero – sembrano avere dei piccoli momenti di lucidità e si chiedono: che cos’è la verità? Una luce? Un eterno simulacro? Una simulazione temporanea?

In OPEN HOUSE – come ne La regola del gioco di Renoir – Linda, Enrica e Carolina giocano per sentirsi umane, per non morire. Il gioco è doloroso, delirante, allucinatorio, è psicologizzante e filosofico, ma non si arrendono. Ogni tanto si fermano in posa per scattare una foto e poi tornano a rincorrersi e liberarsi vicendevolmente, consce del fatto che non può esistere una tana libera tutti, appunto perché «l’inferno sono gli altri».

Se, come afferma Sartre, «l’inferno è separazione, incomunicabilità, egocentrismo, brama di potere, di ricchezza, di fama», le tre sconosciute cosa stanno facendo lì dentro? Tentano di sfuggire all’inferno? O ne fanno parte?

Il loro è un tentativo di riprodurre una dimensione più HUMANA e vivificante – forse utopica e, per questo, triste – di quella reale, di una collettività funerea, che si dimena nel tentativo di salvarsi.

Baudrillard «ha sostenuto l’impossibilità di trascendere il sistema simbolico, in cui l’umanità occidentale si è calata, ma ha rifiutato la possibilità che l’appagamento del soggetto possa venire dalla scoperta del proprio posto nell’economia di questo sistema».

Quando il sistema sociale si afferma come realtà assoluta e onnipresente, non resta altra possibilità se non ripiegarsi su sé stessi, rinchiudersi nel proprio io, rieducarsi all’ascolto. Ma si può ancora farlo in maniera autentica in un mondo che ci induce alla costruzione di un falso sé, di un avatar per definire la propria identità e sentirsi integrati? Secondo Foucault, l’esperimento del Panopticon, proposto da Jeremy Bentham nell’ultimo decennio del 1700, non faceva altro che dimostrare «che la vita è diventata oggetto di potere, un potere difficile da controllare, che si serve di dispositivi molteplici, con il solo scopo di piegarla al potere medesimo».

Così, dentro OPEN HOUSE, nel luogo sacro del teatro, mostrarsi, farsi vedere, diventa una trappola. Chi si espone, chi dà troppe informazioni su di sé (dati biografici e confessioni intime), costruisce la sua gabbia, diventa vittima di un sorvegliante, che non ha volto, e che, forse, non ha neppure cuore.

OPEN HOUSE diventa, a un punto, un’esposizione filosofica sul senso stesso che l’universo virtuale assume nell’esistenza dei singoli: rinchiusi nelle celle, gli uomini – come Linda, Carolina ed Enrica – non vedono, ma sono visti, sono fonte di conoscenza, offrono il loro sapere, si concedono come oggetto d’analisi, ma non gli è consentito comunicare, o almeno, farlo davvero, nella dimenticata forma non digitalizzata.

Enrica si sente come intrappolata nella caverna del mito di Platone, quello che le è concesso osservare è un’illusione, una copia imperfetta della realtà originale. Sa di essere parte di una folla di esecutori, numerabili e controllabili, facilmente persuasibili. Sa di essere una detenuta, la sua unica fuga può avvenire verso l’interno. Si catapulta nella sua psiche, arriva in fondo come una sonda. Lì fuori, Enrica non è che un doppio, una versione distorta di sé, per ritrovarsi ha bisogno di un’esposizione HUMANA, ed esporsi significa stare tra gli altri, ha bisogno che Linda e Carolina l’ascoltino, che avvicinino, anche solo per un istante, la loro individualità alla sua, e viceversa.

OPEN HOUSE ci fa provare un senso di estraneità, perché si ha difficoltà ad accettare come proprio quel mondo, l’aspetto demoniaco e orrorifico, che si nasconde dietro le infinite possibilità che il futuro, con i suoi innumerevoli strumenti, ci offre.

OPEN HOUSE è perturbante, perché non ci porta da nessuna parte, ci inchioda alla sedia, per mostrarci in maniera spietata com’è la realtà che già abitiamo. Con malinconia dobbiamo prendere atto del fatto che se scompariranno i nostri dati, scompariremo anche noi.

Riprendere forma HUMANA è forse quasi impossibile, se non in brevi momenti, in contesti specifici, che si sottraggono al dominio dell’impero tecnologico. Il teatro è uno di questi luoghi di evasione, un paradiso protetto, nel quale riuscire a poter sentire nuovamente le proprie ossa contorcersi, i propri occhi inumidirsi.

OPEN HOUSE – Un’esposizione di HUMANA è un viaggio, lontano dalla fantasia, è una penetrazione del contemporaneo, uno squarcio nella coscienza, per metterla in allarme, e, perché no, anche tormentarla.

In questa lotta per la sopravvivenza, per l’affermazione della nostra dignità umana, il Collettivo BEstand ci ricorda che non siamo soli: c’è l’arte, la forma più audace di resistenza.

Fonte immagine in evidenza: Ufficio Stampa

A proposito di Chiara Aloia

Chiara Aloia nasce a Formia nel 1999. Laureata in Lettere moderne presso l’Università Federico II di Napoli, è attualmente studentessa di Filologia moderna.

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