Dopo la pausa forzata del 2020, il Teatro Mercadante di Napoli inaugura la stagione 2021/22 con Piazza Degli Eroi di Thomas Bernhard per la regia di Roberto Andò.
Abbiamo atteso 33 anni perché s’allestisse in Italia Piazza degli Eroi di Thomas Bernhard, testo-testamento del 1988 cui seguì la fine della sua vita tesa a “irritare e disturbare”.
Un testo profetico – messo in scena per la prima volta in Italia – capolavoro di Thomas Bernhard, tra i massimi autori della letteratura del Novecento, capace di denunciare, già decenni fa, il crescere dei fascismi mascherati da populismi. Oltre a essere il testamento di Thomas Bernhard, lo si può considerare il suo testo più politico, benché questo abbia sempre declinato la politica in termini esclusivamente poetici.
Qui Bernhard colpisce con il suo furore indomabile la zona più oscura del nostro tempo, il ritorno in campo di una destra fascista o nazista. Bernhard muove una feroce critica alle strutture autoritarie e della classe politica austriaca, che reputa ancora profondamente legate al passato nazista. In Piazza degli Eroi l’Austria di Bernhard è luogo concreto e metaforico, che Andò vuole rappresentare per denunciare l’«ottusa brutalità che vede avanzare», in un’azione che si svolge in una piazza qualsiasi di una qualsiasi città d’Europa.
Roberto Andò in scena la tragedia dell’umanità
L’opera, divisa in tre scene, ruota intorno alla figura del professor Schuster. Rientrato in patria, dopo l’esilio in Gran Bretagna a seguito delle leggi razziali, ritrova un paese – l’Austria – incattivito. Non potendo sopportare la realtà che lo circonda, sceglie di porre fine alla sua vita, gettandosi dalla finestra affacciata su Heldenplatz.
Toccherà a quelli che restano provare a dare una spiegazione a un gesto così estremo, rievocando il passato e analizzando il presente: parole che si trasformano in un implacabile e premonitore atto d’accusa contro l’intolleranza. Lo spettacolo di Roberto Andò s’accosta man mano allo scandalo della morte e alla tragedia dei sopravvissuti con umanità.
Questo dramma denunciava già decenni fa il crescere dei fascismi mascherati da sovranismi e populismi, i rigurgiti antisemiti, e le ottusità partitiche, rendendone portavoce una storia di famiglia ebrea viennese in tre spazi e ritratti postumi di un suicidio.
Intimissimo, in apertura, è lo squarcio domestico: della governante narratrice (Imma Villa) che forse è stata la “favorita” dello scomparso Josef, di cui esalta il pensiero, l’intolleranza, il fanatismo della precisione, l’arte dello stirare e il culto delle scarpe inglesi con cui la regia crea in proscenio una mostra struggente, e della cameriera (Valeria Luchetti) che si chiama Herta come la madre di Bernhard, ed è dispensatrice di commossa mitezza.
Poi, in un esterno di panche da parco, introdotto da due figlie del suicida ovvero la razionale Anna (Silvia Ajelli) che fa puntute affermazioni, e l’introversa Olga (Francesca Cutolo) che è stata oltraggiata per strada in quanto ebrea, ecco che fa il suo ingresso in scena il carismatico Renato Carpentieri, depositario di senso, etica, brusca fascinazione.
Renato Carpentieri, l’intellettuale senza speranza
Renato Carpentieri incarna il filosofo Robert, fratello del matematico morto, uno che se ne sta in campagna, che rifiuta di protestare per un’insidia al giardino di proprietà, che non s’è stupito della fine di Josef conoscendone la predisposizione e perché suicida era finito un altro loro fratello.
Lui sa che i viennesi odiano gli ebrei, e con toni di una pacatezza micidiale si dice contro tutti, schifato dai rivoltanti traffici d’un Paese ottuso alla ricerca d’un regista che porti nel baratro. E il suo accenno al palcoscenico europeo, se non è merito della traduzione di Roberto Menin, è da ascrivere, riconoscenti, a Roberto Andò.
Renato Carpentieri diventa dunque il portavoce di pensieri diffidenti e offesi, intellettuale senza più speranze in lucida demolizione di ogni sogno o pensiero di salvezza sociale. Nell’universo anaffettivo e cupo del ragionare dei protagonisti spazia il ricordo e la presenza/assenza del motore emotivo e razionale ad un tempo, il suicidio del professore Schuster che non può più portare avanti l’angoscia che l’accompagna fin dai tempi lontani dell’adolescenza, diventata insopportabile ormai all’affacciarsi dell’intolleranza, dell’illusione ottusa della gente che all’unisono invoca il grido che porterà all’orrore ed alla morte gli austriaci lieti d’essere annessi all’orrore nazista.
A dare voce a questo disperato grido d’allarme sono innanzitutto i tre protagonisti. Renato Carpentieri (Robert Schuster), Imma Villa (la Governante) e Betti Pedrazzi (vedova Schuster). Il loro talento e la verità scenica che trasmettono rendono indimenticabili i loro personaggi, con tutto il carico di emotività, genuinità e umano egoismo che li contraddistingue.
Quel che rimane nella cupezza di quella famiglia, quel che lo sguardo sfiduciato vede rinchiudendosi per l’ultima volta nelle stanze grandi e fredde della casa con quella finestra affacciata sulla “Piazza degli Eroi” e trampolino dell’ultimo viaggio angosciato del suicida, il mucchio di valigie pronte per la partenza e il desolato pullulare di scarpe sulla scena di Gianni Carluccio.
Ai protagonisti della piccola comunità sfiduciata e rinchiusa si unisce Vincenzo Pasquariello con la musica del uso pianoforte suonato come l’irruzione di un respiro incalzante, presenza estranea, coro muto, coscienza rimossa a sistemare oggetti e forse sentimenti in quel ripetersi ossessivo e forte della sfiducia, della sconfitta, della resa all’orrore della prepotenza già presente o in arrivo, da tutti dichiarata e vissuta con rabbia o con malinconia senza speranza.