Così è (se vi pare) di Luigi Pirandello con Eros Pagni debutta a Napoli al teatro Sannazaro e viene oggi rivisitato da Luca De Fusco in un particolare allestimento coprodotto dal Teatro Stabile di Catania, dal Teatro Biondo di Palermo, dalla Compagnia La Pirandelliana e da Tradizione e Turismo-Centro di produzione teatrale.
Ci troviamo in un luogo astratto, dominato dal grigio, che per la sua struttura circolare e claustrofobica, con le finestre strette e regolari da cui si affacciano i vari protagonisti, oscilla metaforicamente tra un condominio-prigione, una sala giudiziaria, un teatro-cinema abbandonato (scenografia e costumi sono firma da Marta Crisolini Malatesta). Al centro della scena, un microfono raccoglie i monologhi-confessione dei due “inquisiti”, la signora Frola (una immensa Anita Bartolucci) e il signor Ponza (Giacinto Palmarini, che riesce a cogliere tutto lo smarrimento del suo personaggio), “colpevoli”, agli occhi della comunità che in quel palazzo vive e si riunisce, di non aver dato sufficienti chiarimenti in merito alle loro vite e alla natura dei loro rapporti.
Luca De Fusco e il teatro come processo
Così è (se vi pare) è uno dei più compiuti sotto ogni punto di vista e quello in cui diventa più che mai chiaro il senso del teatro come processo.
Nel rispondere agli altri e nel dialogare tra loro, la signora Frola e il signor Ponza non hanno infatti più bisogno di fingere che il pubblico non esista: è anzi proprio al pubblico che parlano, ognuno difendendo se stesso e ognuno cercando di dimostrare i difetti e la pazzia dell’altro.
È proprio questo processo di messa a nudo di se stessi e di racconto della propria vicenda la tortura di cui parla Macchia: una sofferenza atroce ma allo stesso tempo un bisogno ineludibile, l’unico modo per rivendicare la propria esistenza.
Un bisogno che, oggi più che mai, siamo tutti in grado di comprendere e di fronte al quale ci riveliamo vulnerabili, anche attraverso l’ossessiva esigenza di condivisione che passa dalla socialità virtuale: Pirandello aveva già intuito che non raccontarsi è come non esistere e ne aveva presagito le conseguenze insieme a quelle della morbosa curiosità dello sguardo altrui.
Ecco perché Luca De Fusco sceglie di bandire ogni elemento grottesco dalla rappresentazione, prediligendo una chiave interpretativa di ispirazione kafkiana, improntata all’incomprensibilità e al mistero, collocando i personaggi al centro di uno spazio angusto e oppressivo, che potrebbe essere il cortile di un manicomio o un insieme di palchi teatrali.
Il cast parte dal gruppo già protagonista dell’edizione dei ‘Sei personaggi’ diretta da De Fusco, ripresa dalla Rai e acclamata in tutto il mondo, con Eros Pagni, Anita Bartolucci, Giacinto Palmarini, Lara Sansone, Paolo Serra, che qui si mescoleranno con gli attori spiccatamente pirandelliani dello stile siciliano.
Tra le opere pirandelliane, “Così è (se vi pare)”, “parabola in tre atti” composta nel 1917, ci consegna un enigma impossibile da sciogliere, simbolizzato dalla celebre battuta della signora Ponza, il personaggio assente di cui si parla continuamente, che entra in scena solo nel finale, coperta da un velo che le nasconde il volto: «Io sono colei che mi si crede». Nel recensire l’opera, Antonio Gramsci parlò di «uno sgambetto logico»., mentre Giovanni Macchia fece riferimento alla spirale pirandelliana per costruirci sopra la sua seducente teoria della «stanza della tortura», di cui oggi il regista Luca De Fusco si riappropria per spiegare le scelte fatte in campo scenico.
Attraverso un serrato, e coinvolgente, psicodramma che porta alla ribalta i due “corpi estranei”, indigesti, della signora Frola e di suo genero, il signor Ponza, si mette in scena il sacrificio rituale da parte di un gruppo sociale che ha bisogno, come dice Laudisi, alter ego di Pirandello di correre dietro «al fantasma altrui», ignorando «il fantasma che si porta con sé, in sé stessi». Ma questo sacrificio non riesce ad essere completamente consumato. Sarà la materia stessa del reale, la sua imprendibilità, a mettere in scacco quella comunità curiosa e pavida. La stessa comunità che, dopo un secolo, avrebbe trovato il suo strumento perfetto per esprimersi: con l’esercizio maniaco dei social, oggi si riesce a dare la morte senza versare una sola goccia di sangue.
La signora Frola sostiene che il genero l’ha condotta in quella casa, lontana dalla figlia, perché affetto da «una pienezza d’amore esclusiva nella quale la moglie deve vivere, senza mai uscirne, e nella quale nessun altro deve entrare». Il signor Ponza racconta invece che la povera donna è impazzita dopo la morte della figlia, avvenuta quattro anni prima. Chi è dunque la signora Ponza? La figlia della signora Frola che il genero le fa vedere da lontano, oppure la seconda moglie del signor Ponza (come sostiene lui) costretta a recitare il ruolo della figlia della signora Frola per non rinnovare nella madre il dolore per la sua morte?
Chi dice la verità? Nella forsennata ricerca di prove che possano sancire l’ineluttabilità di un giudizio definitivo, il branco dei vicini si convince che la signora Ponza porterà con sé lo scioglimento dell’enigma e quindi la pace nella comunità. Ma la sua apparizione porta invece in scena un’altra dimensione. Nello spettacolo di De Fusco, la signora Ponza ha in sé qualcosa dell’Alcesti di Euripide, che torna dall’Ade con la sua nuova forma velata. Tutto l’andamento della pièce ci fa pensare alla tragedia greca, eppure la lingua è totalmente pirandelliana. Segno di un lavoro organico e colto, capace di far risuonare gli elementi di classicità in una dimensione novecentesca che sa parlare anche del mondo attorno a noi.
Così è (se vi pare) e la ricerca sul testo
Luca De Fusco realizza uno dei più potenti spettacoli pirandelliani messi in scena negli ultimi anni, lasciando nello spettatore la sensazione di aver partecipato ad una autentica indagine teatrale su una materia fragilissima, presente nel testo di Pirandello ma ignorata dai più. In questa messa in scena trova piena cittadinanza non solo il discorso sulle doppie verità, ma anche la tenerezza di cui si fanno portatori il signor Ponza e la signora Frola e che solo Laudisi coglie, per la sua propensione all’ascolto che lo aliena dagli effetti criminosi della chiacchiera. Nel desiderio di proteggersi reciprocamente l’uno con l’altro, la signora Frola e il signor Ponza portano al centro dell’anfiteatro in cui si svolge il processo la forza scandalosa della compassione, il segno disperante, celibe, di un dispendio d’amore che non può trovare casa da nessuna parte e di cui l’abbraccio finale tra i due – abbraccio tenero, scomposto – diventa incisiva espressione plastica.
La scena si apre appunto su uno spazio circolare grigio, delimitato da archi e finestre.
E’ questa la cornice in cui avviene il noto processo pirandelliano di “Così è (se vi pare)”, che vede tra i protagonisti Eros Pagni, quasi sempre in scena, nel ruolo dello scettico Laudisi. L’attore veste un abito chiaro e abita il proscenio, in poltroncina, sulla sinistra. Presenza fastidiosa e giudicante per gli altri personaggi, buffi impiccioni alle prese con l’enigma che ben conosciamo, non risolve il nodo, anzi lo complica e se ne diverte. La classicità contemporanea del suo recitare calza fino alla sovrapposizione con la parte interpretata.
E’ proprio sul testo, infatti, che lo spettacolo di Luca De Fusco fonda gran parte della sua efficacia, e sono gli attori a fungere, inevitabilmente, da strumento privilegiato ed essenziale.
Il microfono anni Sessanta dietro al quale i due “imputati” pronunciano le loro arringhe davanti alla “giuria” ne amplifica la potenza emotiva. E’ il luogo deputato alla parola ma anche all’ascolto, e l’interprete lo utilizza in modo attivo e cosciente. La parrucca argentata della Signora Frola, l’abito scuro, il passo dimesso ma elegante contribuiscono ad accrescerne la complessità.
Accanto a lei c’è il signor Ponza, meno misterioso ma non per questo meno intrigante. I suoi monologhi, inizialmente controllati, lasciano spazio a intensi sprazzi nevrotici man mano che la vicenda si complica.
E poi c’è la corte, la giuria, gli altri personaggi del processo. Sono figure quasi intercambiabili nella funzione. Pirandello gioca con loro facendo dimenticare addirittura i nomi quando gli altri, apparentemente predominanti, rivolgono loro la parola. E invece sono proprio questi ruoli a diventare il vero motore drammaturgico dell’opera.
De Fusco li fa accomodare su vecchie seggioline di teatro, alcune di esse legate tra loro a formare una fila. Si godono il deprimente e voyeristico spettacolo che manovrano e alimentano con insaziabile curiosità. Il grigio predominante colora gli abiti eleganti e le sedute stesse, supportando la regia nel mettere in evidenza qualcosa di démodé che emerge non soltanto dalle parole ma anche dalla prossemica che gli attori “indossano”, in coerenza con i vestiti.
La platea ride in diverse occasioni per poi pentirsene allo “scatto” della trappola del rimorso. Un sentimento assente tra le figure in scena ma ben presente tra il pubblico che, poco a poco, prende consapevolezza di stare giocando con i vissuti di Frola e Ponza. Ci si trova così dalla parte dello scomodo Laudisi mentre si assiste all’ultimo e tanto atteso intervento chiarificatore, vale a dire il breve monologo della signora Ponza, giunta ad hoc in paese.
La donna arriva al palco attraversando la platea, coperta da un velo da sposa nero. E’ un fantasma che sussurra poche parole, famosissime e piene di eco. Sembra provenire dall’aldilà. Mentre è in scena, gli altri interpreti si collocano all’interno della scenografia, in piedi, dando vita ad un abbraccio straniante che chiude lo spettacolo. Spetta alla Signora Ponza, che piomba sul palcoscenico completamente fradicia per la pioggia, consegnare al pubblico, con un groppo in gola, l’unica verità possibile, anche se non risolutiva: «Io sono colei che mi si crede».
Cosi è se vi pare è uno spettacolo di grande attualità morale, su una società che ha bisogno di sentirsi rassicurata e protetta sotto una campana di giudizi, mentre le individualità riservate, ben pensanti o no, devono essere segnate, chiarite, precisate, torturate e imprigionate, o comunque allontanate. Ma che importanza ha davvero la realtà?
Pirandello c’insegna che in fondo non sappiamo neanche se esiste, perché ognuno dei personaggi ha la sua obiettività e non vede le altre; sono più forti e continui gli inganni, i luoghi comuni e i pregiudizi, che la realtà stessa. Un argomento su cui riflettere molto, in una collettività dove la televisione e gli altri mezzi di comunicazione di massa scaricano raffiche di parole su chiunque sia ‘in fallo’, come se esse, formanti le opinioni delle persone-poltrone, false o no, non avessero il potere e la forza di alterare la vita di una figura reale. Ma «una realtà non ci fu data e non c’è, ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere: e non sarà mai una per tutti, una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile».