Fuck me di Marina Otero debutta al Teatro Politeama di Napoli, per la Sezione Internazionale del Campania Teatro Festival 2021
Fuck me è la terza parte della prima trilogia del progetto Remeber to live, un lavoro costante nel quale io sono io stesso oggetto di ricerca e che riguarda lo scorrere del tempo.
È il tempo il protagonista dello spettacolo Fuck me, misurato attraverso gli effetti impietosi che produce sul corpo. Tempo filtrato attraverso il ricordo nostalgico di una felicità andata e il cinismo che caratterizza il presente e assottiglia le speranze del futuro.
Uno sfondo rosso e luci offuscate, una musica spagnola e cinque corpi nudi che dalla platea si dispongono sulle tavole del palcoscenico. I loro corpi assumono pose plastiche, i loro movimenti diventano una danza. Una sedia vuota è presto occupata da una donna: è Marina Otero, drammaturga e danzatrice argentina che inizia a parlare di sé, a rievocare il passato, il suo essere una bambina piena di sogni, il suo essere una ballerina, desiderosa di piacere e di piacersi; a rievocare il presente, il suo essere una donna con un corpo che di quei sogni non può più essere al servizio.
Sebbene i miei lavori partano dalla biografia, non esiste un patto di verità, poiché in qualche modo ricordare è ritoccare. Ma c’è un patto con la mia memoria: le immagini erose dal tempo poeticizzano e deformano il reale. La memoria è la fonte del mio materiale coreografico. Come nominare l’assenza? Quando le parole non bastano, il corpo riempie.
E attraverso il dimenarsi e intrecciarsi dei corpi nudi dei suoi performer Marina ricostruisce la sua vita con una fusione di linguaggi: le sue parole sono supportate da movimenti altrui e da vecchi filmati in successione in cui appare sorridente, intenta in coreografie che ora la sua mente può solo immaginare, costretta in un corpo che a fatica le permette di muoversi. Quel corpo con cui si impegnerà a raccontare la sua vita fino alla morte, a scandagliare le ferite dell’esistenza costringendo lo spettatore ad uscire dalla sua comfort zone.
Una pièce autoreferenziale, narcisistica, come l’artista stessa la definisce, un inno alla vita, al sesso, al corpo e al piacere, anche quando questo è sopraffatto dal dolore. E alla fine un girotondo di uomini imbavagliati e inginocchiati intorno alla sua figura, al suo corpo che domina la scena.
Quale corpo si impegnerà a raccontare la mia vita fino alla morte? Solo il mio.