In programma al Teatro Arcobaleno di Roma fino al 24 novembre, La morte della Pizia di Dürrenmatt smaschera la credulità degli uomini e il caos che governa la loro vita.
«La sacerdotessa di Delfi Pannychis XI , lunga e secca come quasi tutte le Pizie», così il drammaturgo svizzero Friedrich Dürrenmatt introduce la protagonista del suo racconto La morte della Pizia.
Il testo, noto in Italia nella traduzione di Renata Colorni edita da Adelphi nel 1988, è stato riadattato per le scene da Patrizia La Fonte e Irene Lösch. L’adattamento teatrale, approvato da Diogenes Verlag – che di Dürrenmatt detiene tutti i diritti di pubblicazione, traduzione e rappresentazione delle opere -, rivive sul palcoscenico del Teatro Arcobaleno fino al 24 novembre grazie alla stessa La Fonte che interpreta la protagonista e a Maurizio Palladino, nei panni di Merops, il tesoriere del tempio. Regia di Giuseppe Marini. Musiche originali di Paolo Coletta.
La morte della Pizia di Dürrenmatt
Una Pizia, esperta e piena della sapienza malinconica che la vecchiaia concede, è costretta a esporsi, per l’ennesima volta, agli spifferi e all’umidità di quel che resta dell’ormai logoro Tempio di Apollo a Delfi, perché costretta da Merops a pronunciare il vaticinio formulato da Tiresia per Edipo.
Tiresia è corrotto e marcio dentro, ma paga bene. I reumatismi della brontolona Pannychis possono aspettare. I giambi composti per il principe di Corinto, devono essere pronunciati subito.
Ma la vecchiaia trascina con sé anche il bisogno di fare i conti con il proprio operato e una Pizia quando c’è più sole è tormentata dalle ombre che la perseguitano.
Giocasta, Edipo, Laio, la Sfinge appaiono sulla scena, sotto forma di visioni, per mettere uno di fronte all’altro Tiresia e la Pizia, chiamati a render conto delle profezie pronunciate e del corso terrificante degli eventi da loro causato. Ma le profezie esistono perché esiste la propensione degli uomini a voler conoscere il futuro, condannandosi all’infelicità. E quanto più sono folli i vaneggiamenti della profetessa, tanto più risultano credibili agli uomini. Tra la fantasia degli spettacolosi responsi della Pizia e la razionalità di quelli di Tiresia, è la prima a conquistare la credulità degli uomini che, brancolando nel buio, cercano risposte che diano un senso al flusso degli eventi da cui sono travolti.
Uomini che, in queste profezie spesso autoavveranti, cercano un alibi perfetto per le nefandezze che consapevolmente commettono, mentre si convincono di assecondare la volontà degli dei. Che queste visioni siano vere o frutto della creatività degli indovini, che si tratti di visioni causate dai vapori balsamici o di menzogne costruite ad arte, poco importa.
La decostruzione del mito
Il testo di Dürrenmatt deostruisce il mito, togliendo a uno a uno tutti i mattoncini che da sempre tengono su le storie che ci raccontano. E anche le nostre certezze.
I responsi che Edipo ha ricevuto sul suo destino, ad esempio, sono stati commissionati ad hoc – e pagati a peso d’oro – dallo zio Creonte che voleva estromettere il nipote dal potere. Ma le ombre sono più vere della carne quando ci si crede. Gli dei avevano decretato un destino terribile per Edipo e quella mostruosità doveva compiersi.
– Gli dei mi avevano dato l’impareggiabile libertà di uccidere quelli che mi hanno messo al mondo.
– Così, assecondando la loro volontà, tu esalti gli dei!
– Non li esalto, li derido.
È la verità? Ha senso cercarla? Perché arrovellarsi sulla possibilità che qualcosa sia diverso da come ce lo hanno raccontato?
La morte della Pizia in scena all’Arcobaleno
Una camaleontica, mordace e evocativa Patrizia La Fonte porta i panni anche di Giocasta e della Sfinge; accanto a lei Maurizio Palladino, potente, intrigante e cinico interpreta Merops, Edipo e Tiresia.
Nemmeno per un secondo si percepisce la distanza spazio-temporale che ci divide dalle storia, perché l’irrisione del mito è una riflessione disturbante sui limiti della nostra conoscenza e sulla tendenza degli uomini a lasciarsi ingannare pur di sentirsi sollevati dalla responsabilità di destreggiarsi, senza armi, nell’inestricabile e insondabile mistero della vita. «Accetta il mistero!», avrebbero risposto i fratelli Coen.
Dürrenmatt strappa il velo di Maya, suggerendo ai lettori – e agli spettatori – di ragionare sui falsi miti nei quali continuamente ripongono la loro fiducia cieca pur di non affrontare la crudezza della verità.
«Non c’è dittatura senza fedeltà, mentre per la democrazia è necessaria una modesta mancanza di fedeltà».
Foto fornite dall’Ufficio stampa del teatro