Le Operette Morali al Tram | Recensione

Operette morali

Le Operette morali di Mirko Di Martino chiude la stagione al Tram, la sala di Port’Alba saluta il suo pubblico con un’opera imperitura e universale, resa in forma originale e attuale, grazie al lavoro di due attori eccezionali, che mettono in scena un complesso dibattito filosofico su tematiche esistenziali, a mo’ di dialogo a tu per tu tra due eclettici trasformisti, figli del contemporaneo.

Da giovedì 27 a domenica 30 aprile Antonio D’Avino e Nello Provenzano nelle Operette morali riescono a farci ridere, piangere, e riflettere, attraverso un viaggio tortuoso nel macchinoso sistema di pensiero dell’uomo, unico essere vivente sulla Terra condannato a sentire la vita mentre accade, a percepire se stesso mentre vive.

Mirko Di Martino, fondatore e direttore artistico della Sala di via Port’Alba, ha scelto, insieme agli interpreti, nove delle ventiquattro prose e dialoghi, di cui si compone il testo originale delle Operette morali (1824). Le tematiche centrali delle operette selezionate sono: il desiderio di felicità, il dolore, la morte, il rapporto dell’uomo con gli altri uomini e con l’universo.

Nelle Operette morali il pensiero diventa ingombrante, come gli oggetti, come i costumi. L’anima è sotterrata, fatica a mostrarsi, solo se ci si abbandona, la si intravede

Lo spettacolo delle Operette morali ci catapulta dentro la testa, ci invita ad abbracciare il pensiero e il dubbio come stati permanenti dell’essere. I due protagonisti pensano e vivono al contempo, disturbati dal ronzio delle riflessioni, degli interrogativi che si fanno via via più grandi, ingombranti, irrisolvibili, eppure utili, fonte insaziabile che consente il perpetuare della vita stessa.

La scommessa di Prometeo si trasforma in un episodio di cronaca, in cui viene fuori tutto l’orrore, il lato malefico dell’uomo, il suo perverso desiderio di autodistruzione, l’ingratitudine, come caratteristica atavica e irrimediabile. Ecco che Prometeo perde la sua scommessa, nel momento in cui l’umano svela la sua vera natura, la sua intrinseca imperfezione, e ne fa motivo di vanto, nutrimento da cui attingere per la sopravvivenza.

Cambio di scena: sul palco i due protagonisti indossano rispettivamente un berretto a quadri e un caschetto giallo a elmetto. Assistiamo ora al dialogo di un Folletto e di uno Gnomo. Lo Gnomo è alla ricerca di qualche traccia lasciata dall’uomo sulla Terra, ma il Folletto lo informa che tutti gli esseri umani si sono estinti e, con essi, le opere da loro compiute. I due intraprendono un acceso dibattito sulla presunzione dei viventi di credere che l’intero universo sia stato plasmato appositamente per loro, per la loro permanenza, che tutte le risorse siano state messe a loro completa disposizione.

Le Operette morali si rivelano, a questo punto della messinscena, un’opera completamente innovativa, piena di ironia pungente e inattesa. Il Folletto e lo Gnomo sono convinti, a loro volta, che se il mondo non è stato creato per l’uomo, allora sicuramente deve aver avuto origine affinché i folletti o gli gnomi vi abitassero. Allora la questione di natura universale, diviene ora un battibecco tanto comico quanto insulso tra i due: sono i folletti i veri padroni del mondo o gli gnomi?

Non può mancare all’appello, tra i temi esistenziali, la morte. Il dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, tratto fedelmente dalle Operette morali, viene rappresentato in una veste insolitamente moderna, assume quasi i tratti di una scena filmica. Nello studio di uno scienziato si presenta un morto, con la facoltà di poter parlare con i vivi per un quarto d’ora soltanto, a patto che siano questi ultimi a rivolgergli le domande.

Ruysch appare qui come in uno stato onirico, incapace di distinguere il sogno dalla realtà, infine, si rassegna al gioco dell’Assurdo, che pure spesso si diletta a insinuarsi nella vita vera, e lo scienziato comincia a interrogare il suo interlocutore. Dapprima gli pone domande semplici per soddisfare le sue curiosità di uomo di scienza, alle quali il morto-vivente risponde perentorio e succinto: la morte corrisponde a un affievolirsi di tutte le facoltà del sentire, pertanto, nel momento in cui si muore, non si sente niente.

Quindi se la morte non è dolore, ne consegue che essa somiglia piuttosto al piacere. È l’unico momento in cui l’essere pensante può esimersi dal compiere le azioni alle quali è stato condannato per l’eternità: l’autoriflessione e l’autopercezione. L’anatomista è in uno stato di confusione, sperimenta l’ebbrezza della non comprensione di cosa gli sta accadendo, delle risposte che sta ricevendo.

Sul palco del Tram prende forma l’eccezionalità, la magia della non contingenza, del no-senso, che coincide con il ridicolo, che suscita un riso a metà tra la rassegnazione e la follia pura. Ruysch si sente perso nell’abisso dell’occulto, dell’inattingibile, dell’ignoto. Rimane esterrefatto e mummificato come un morto, quando viene a sapere che morire è godere, che somiglia al torpore dolce e languido del sonno, che si avvicina a un addormentarsi placido, in cui il senno ci abbandona e, con esso, anche il tormento cessa.

La sospensione del tempo – il quarto d’ora concesso al morto per parlare – e del fragore dell’ordinario affollarsi di idee, teorie, congetture, sul senso stesso che la vita assume, prendono, qui, la forma della rappresentazione teatrale, anch’essa miracolosa interruzione di questo andare, sempre consapevole, dell’esistenza.

I due protagonisti paiono guidati da una forza sovrannaturale: cambiano tono della voce, sembianze, si travestono, mostrano l’aspetto multiforme e imprevisto, che la realtà può assumere, a un certo punto, viaggiano alla scoperta di terre ignote, mai esplorate. L’uno è Cristoforo Colombo, l’altro è Pietro Gutierrez: ormai presi dallo sconforto e dalla stanchezza, dopo aver navigato a lungo, si intrattengono in riflessioni sul senso stesso della navigazione, sull’errare e il vagabondare, che sono propri dell’essere umano. Le uniche ricchezze che la vita gli può concedere sono: non capire, non sapere, continuare a viaggiare, la ricerca come sola certezza.

Lo «strappo nel cielo di carta» è già avvenuto, l’uomo non è più al centro della terra: «maledetto sia Copernico». Oggi questo strappo è divenuto una crepa, lo specchio si è rotto, non ci si può più vedere riflessi, non si conosce più il proprio volto. Nelle Operette morali, le immagini che vedono l’uomo proiettato sono in formato digitale, non sono realistiche, le espressioni, che uno dei due protagonisti assume, sono plastiche, contraffatte.

Nel dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere delle Operette morali, i due discutono sulla possibilità di poter rivivere la propria vita una seconda volta.

I personaggi in scena, del resto, non riescono ad affrancarsi dal peso degli oggetti che si portano dietro, dalla loro ingombrante presenza, come dal passato, e, sul palcoscenico, anche il tempo scorre lento, come granelli di sabbia in un’antica clessidra.

Entrambi gli attori, ripercorrendo le Operette morali come in un film a episodi, non possono fare a meno di trasmettere la vacuità e l’amarezza, che si nasconde dietro questa interminabile ricerca di senso, e la fatica che comporta, tanto che, infine, sarebbe preferibile la non-vita, o l’incertezza di ciò verrà.

Così il passeggere conclude, un po’ rassegnato, un po’ speranzoso:

«Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?»

Per l’intera durata dello spettacolo, le Operette morali riescono a proiettarci in una dimensione distopica, eppure non così lontana dalla contemporaneità o dall’imminente futuro. Se il senso dell’evoluzione risiede nel riuscire a guardare il mondo in modo diverso, da una prospettiva nuova, – Colombo ha raggiunto la sua America, il Folletto e lo Gnomo hanno scoperto che il genere umano si è estinto – allora il nostro progresso si rivela un fallimento.

Nelle Operette morali gli strumenti sono un di più, eccedono, – tutta la rappresentazione sarebbe riuscita anche senza – ma la costruzione della scena rivela l’essenziale, che altrimenti non avremmo potuto recepire: il presente è avvilente, più siamo digitalizzati, più ci allontaniamo dalla nostra vera natura, più si sente l’urgenza di ritornare a specchiarsi, per osservarsi nel dettaglio, e non guardarsi solo, ritratti artificialmente, in uno schermo.

Urge tornare a saper usare i vecchi ferri del mestiere: la riflessione filosofica, il dialogo, il confronto. Forse il nostro dovere morale è tornare a compiere piccole operette essenziali, minuscole ma preziose, come la nostra presenza in questo universo, e mettere da parte le grandi opere, ché ne abbiamo già realizzate abbastanza, e a danno della nostra specie.

 

 

Immagine di copertina: Ufficio Stampa

A proposito di Chiara Aloia

Chiara Aloia nasce a Formia nel 1999. Laureata in Lettere moderne presso l’Università Federico II di Napoli, è attualmente studentessa di Filologia moderna.

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