Shakespeare/Bach debutta al Teatro Mercadante il 9 luglio alle ore 21.00. Sonia Wieder-Atherton – che ha curato anche la regia – si siede al violoncello e compie un viaggio nella memoria. Charlotte Rampling dà voce al Bardo, è l’interprete dei suoi versi, sul palco diviene pura poesia.
La scenografia di Shakespeare/Bach è minimale: due soli lumi vegliano come comete sulle figure femminili protagoniste di uno spettacolo sinergico tra musica e sonetti. Le luci (a cura di Jean Kalman) e i video (creazioni di Quentin Balpe) costruiscono una scena di sole ombre, volti e parole sfuggenti, che servono a ripescare i ricordi dal fascinoso mondo della reminiscenza.
Shakespeare/Bach, recensione
If I could write the beauty of your eyes
And in fresh numbers number all your graces,
The age to come would say “This poet lies:
Such heavenly touches ne’er touched earthly faces.”
Lo spettacolo si apre con il sonetto 17, entrando subito nel vivo dell’universo poetico di Shakespeare. Emerge il timore profondo da parte del poeta che il suo componimento possa rivelarsi un simulacro, non all’altezza del sacro che intende comunicare. Un momento vissuto e l’espressione di quell’istante assumono un valore più grande a posteriori? La bellezza è qualcosa che solo la rimembranza può testimoniare in maniera fedele. Il potere di un volto, il suono di uno strumento che riproduce l’immortale restituiscono all’artista la grandezza del suo versificare e i suoi frammenti di vita liricizzante.
Le musiche di Bach riempiono di suggestioni, concedono “eccessi di fantasia”: gli unici in grado di dare immortalità al senso di meraviglia che accompagna la visione di un uomo bello e giovane contro le minacce incombenti del “tempo divoratore”. L’intera messa in scena ha come centro tematico il desiderio di far sopravvivere il passato, il potere eterno della parola, la sua funzione generatrice.
Il viso di Charlotte Rampling– attrice nota del cinema mondiale – esprime tutta la sensazione di perdita e la sua voce è al contempo sicura e caduca, come se rievocasse un messaggio recuperato da una dimensione altra, così vicina e lontana, così vera e inumana. Lo stato sembra essere quello del dormiveglia, in cui è impossibile distinguere la realtà dal sonno, quello che è già stato da quello che sta accadendo.
L’effetto ipnotico di Shakespeare/Bach è dato dalla sincronia delle note che guidano il dispiegarsi lento delle rime: le une non possono esistere senza le altre e vicendevolmente si attendono al fine di realizzare una suite sospesa, di natura eterea e inafferrabile.
Atemporali sono Bach e Shakespeare, conosciuti e vivi ancora a ogni latitudine. In questa opera teatrale vengono elevati in uno spazio siderale, al centro di due astri guida, le uniche fonti luminose che rimangono accese per l’intera durata della rappresentazione.
«My love shall in my verse ever live young»: la giovinezza si sedimenta nell’infinito. L’immensità è uno spazio inesistente dove la frase musicale e quella scritta sul foglio non necessariamente devono avere uno scopo funzionale, se non quello della lotta alla mera sopravvivenza. La visceralità delle immagini riferite agli animali (sonetto 19) ci trasporta in uno stato primordiale, vicini al ripristino dell’umana specie (anche i componimenti di Bach sono intrisi di mortalità).
Shakespeare/ Bach è un’arma potente contro il dominio temporale, si concede al finito per rendere comunicabile agli spettatori l’incanto, ma non tradisce la sua aura di sogno. È un lavoro di abbondanza, un dono all’umano, ma anche di sottrazione, di prevenzione dell’Arte contro il Signor Futuro, ossia l’oscuro ignoto.
Le uniche forme intramontabili di espressione che abbiamo sono appunto la creazione artistica e l’amore:
Amore non è amore
se muta quando scopre un mutamento
o tende a svanire quando l’altro s’allontana.
Sul finire le stelle si fanno via via più fioche, perdono il loro bagliore sino a spegnersi, ma nell’atmosfera della sala si propagano come onde sonore invisibili le forze imperiture del verbo e della melodia.
Immagine di copertina: ufficio stampa